al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di
rendere la prestazione lavorativa.
1.11.
– Da questo panorama giurisprudenziale, può trarsi il principio della tendenziale
ammissibilità dei controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo
all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti
diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e
qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di
accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie
di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo ed
alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso,
sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale.
1.12.
– Ad avviso del Collegio, la fattispecie in esame rispetta questi limiti e si pone al di
fuori del campo di applicazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Infatti, il datore di
lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività
lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto adempimento, ma l’eventuale
perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente
riscontrati, e già manifestatisi nei giorni precedenti, allorché il lavoratore era stato sorpreso
al telefono lontano dalla pressa cui era addetto (che era così rimasta incustodita per oltre
dieci minuti e si era bloccata), ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un
dispositivo elettronico utile per conversazioni via internet. Il controllo difensivo era dunque
destinato ad riscontare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio
aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti. Si è
trattato di un controllo ex post, sollecitato dagli episodi occorsi nei giorni precedenti, e cioè
dal riscontro della violazione da parte del dipendente della disposizione aziendale che
vieta l’uso del telefono cellulare e lo svolgimento di attività extralavorativa durante l’orario
di servizio.
1.13.
– Né può dirsi che la creazione del falso profilo face book costituisca, di per sé,
violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro,
attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore,
non invasiva né induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o
sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito.
1.14.
– Altrettanto deve dirsi con riguardo alla localizzazione del dipendente, la quale,
peraltro, è avvenuta in conseguenza dell’accesso a face book da cellulare e, quindi, nella
presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il
sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare. In ogni caso, è principio affermato dalla
giurisprudenza penale che l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e
a localizzarlo, controllando a distanza la sua presenza in un dato luogo ed in un
determinato momento attraverso il sistema di rilevamento satellitare (GPS), costituisce
una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività
di intercettazione prevista dall’art. 266 e seguenti c.p.c. (Cass. pen., 13 febbraio 2013, n.
21644), ma piuttosto ad un’attività di investigazione atipica (Cass., pen., 27 novembre
2012, n. 48279), i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del
convincimento del giudice (cfr. sul libero apprezzamento delle prove atipiche, Cass., 5
marzo 2010 , n. 5440).
1.15.
– Sono invece inammissibili per difetto di autosufficienza le ulteriori doglianze del
ricorrente, incentrate sull’inquadrabilità della condotta posta in essere da Gianmarco Pinto,
responsabile delle risorse umane della P., e costituita dalla creazione del falso profilo face
book, nel reato di cui all’art. 494 c.p. Di tale questione non vi è, infatti, cenno nella
sentenza impugnata e la parte, pur asserendo di averla sottoposta alla cognizione dei
giudici di merito, non indica in quale momento, in quale atto e in quali termini ciò sarebbe
avvenuto, con la precisa indicazione dei dati necessari per il reperimento dell’atto o del
verbale di causa in cui la questione sarebbe stata introdotta. Né l’accertamento della