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Invero, la Corte d’appello ha adeguatamente motivato il proprio convincimento sulla gravità del fatto oggetto
dell’addebito disciplinare posto a base del licenziamento attraverso argomentazioni congrue, ancorate a dati
istruttori precisi ed immuni da qualsiasi rilievo di ordine logico-giuridico.
In sostanza la Corte di merito ha spiegato che le risultanze processuali avevano dato ampia contezza del fatto
che il K. aveva mostrato di aver tenuto un comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto
alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in un ambito
strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o
nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing, rivelatasi, tra
l’altro, infondata.
La stessa Corte ha, altresì, messo in risalto la reazione dei medici coinvolti, quale riportata nella lettera del
28/4/2008, che si concretizzò in una richiesta alla Direzione Sanitaria di adozione di provvedimenti necessari
per la prosecuzione da parte di ciascuno di loro di un sereno ed efficace rapporto lavorativo, la qual cosa ha
consentito ai giudici di merito di prendere atto del clima di mancanza di fiducia che si era venuto a creare nei
confronti del ricorrente, fiducia indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla
qualità del servizio, il tutto con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario che avrebbe
dovuto permeare il rapporto tra il dipendente e l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro.
Pertanto, le odierne censure del ricorrente finiscono per tradursi in una inammissibile rivisitazione del merito
istruttorio, non consentita nella presente sede di legittimità, attraverso il richiamo al contenuto di alcune
deposizioni, senza che ciò riesca a scalfire la validità della "ratio decidendi" posta a fondamento del rigetto del
gravame.
Non va, infatti, dimenticato che "in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione
della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera
vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in
via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di
controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle
ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente
prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della
controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione
giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe
portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti
con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le
risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera
probabilità, l'efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio
decidendi" venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in
quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza
addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune
o vizi logici determinanti)." (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355
del 9/8/04).
In definitiva il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate a suo carico
come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per
compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.