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comminata dalla norma a fronte di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative alla
posizione del lavoratore.
La Suprema Corte tuttavia, nell’ambito di diverse pronunce, ha sostenuto la non applicabilità
della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado
inferiore alle ultime svolte
corrisponda all’interesse del lavoratore stesso
. In altri termini, si è
osservato che il divieto di demansionamento debba essere interpretato alla stregua della regola
dell’equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione
aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio
posto di lavoro.
Di conseguenza, nelle ipotesi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti
l’esternalizzazione dei servizi ovvero la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o
ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle
precedentemente espletate,
non si pone in contrasto con il dettato codicistico
(cfr. Cass., sez. lav.,
n. 6552/2009).
La Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso il patto di demansionamento, con
assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era
stato assunto o che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un
licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del lavoratore stesso a mantenere
il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009; n.
21700/2006).
In altri termini,
solo in via d’eccezione le parti
posso pattuire una diminuzione della
retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di demansionamento,
laddove questo rappresenti l’
extrema ratio
per la salvaguardia del posto di lavoro
. Ciò appare
verosimile qualora il demansionamento riguardi un congruo numero di lavoratori e dunque una
evidente diminuzione dei costi aziendali. In tale ipotesi, pertanto, l’impossibilità di mantenere il
medesimo livello retributivo dovrà essere rappresentato dal datore di lavoro come elemento in
assenza del quale non è possibile salvaguardare il posto di lavoro,
A conforto delle suddette argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato i
presupposti indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo delle
mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie concrete si riscontri
l’effettività della situazione pregiudizievole che si vuole scongiurare e soprattutto il consenso del
lavoratore validamente prestato, esente da ogni forma di vizio.
Ciò premesso, fermo restando il divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito
dall’art. 54, comma 1, D.Lgs. n. 151/2001 – ai sensi del quale “
le lavoratrici non possono essere