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La seconda questione sottoposta all’attenzione di questa Amministrazione trae, invece,
origine dal peculiare contesto di crisi aziendale, a fronte del quale il Legislatore predispone lo
strumento dei contratti di solidarietà difensivi disciplinati dall’art. 5, comma 5, L. n. 236/1993.
Nello specifico, l’interpellante chiede se, nell’eventualità della soppressione del reparto o
della funzione cui era addetto il lavoratore in solidarietà ed in caso di impossibilità di assegnazione
a mansioni equivalenti, nonchè a seguito del rifiuto opposto dal lavoratore medesimo alla
sottoscrizione di un accordo per l’adibizione a mansioni di grado inferiore, sia o meno consentito
all’azienda di continuare a fruire del contributo di solidarietà.
In altri termini, si pone in dubbio se l’eventuale licenziamento scaturente dalla situazione
innanzi descritta (soppressione dell’originaria funzione, proposta del datore di lavoro di adibizione
a mansioni inferiori con finalità di salvaguardia della posizione lavorativa, rifiuto opposto dal
lavoratore alla stipulazione del contratto in tal modo configurato), produca effetti negativi in ordine
all’erogazione dei contributi integrativi riconosciuti per i contratti di solidarietà.
Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale della Tutela delle Condizioni di
Lavoro e della Direzione generale degli Ammortizzatori sociali e I.O., si rappresenta quanto segue.
In via preliminare, è necessario inquadrare la problematica sottesa ad entrambi i quesiti nella
cornice giuridica di cui all’art. 2103 c.c.
Come è noto la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi in direzione
orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale nell’ipotesi di
assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, in realtà, non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni,
lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli
indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dall'art. 2103
c.c., ai sensi del quale “
il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o
a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione
(…)
ogni patto contrario è nullo
”
.
Il concetto di equivalenza, secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le
nuove mansioni consentano l’estrinsecazione della professionalità già acquisita, ma altresì che il
lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi
di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre, principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in
virtù del quale l’art. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima
l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, in ragione dell’espressa sanzione di nullità