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scorrette rappresentate soprattutto da quella seduta prolungata con associate vibrazioni (ad esempio
autisti)» – che «la prolungata stazione eretta, sulla quale molto si insiste nel ricorso, … ha addirittura evitato
l’aggravamento della patologia discale», anch’essa, peraltro, «non presente al momento del riconoscimento
dell’invalidità», cioè nel 1993, (in quanto manifestatasi per la prima volta nel 1998), sicché la relativa
assenza per malattia (dal gennaio al luglio 2001) «non è riconducibile a patologie per le quali la Sig.ra (…)
era stata riconosciuta invalida». Orbene, per un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, il
giudice nel motivare la decisione adottata su una questione tecnica è tenuto ad avvalersi, ad integrazione
degli elementi istruttori e delle proprie cognizioni, anche delle massime d’esperienza (o nozioni di comune
esperienza), da intendere come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei
fenomeni naturali o socio-economici, sicché il mancato ricorso, da parte del giudice del merito, a dette
massime, in quanto interferente sulla valutazione del fatto, è suscettibile di essere apprezzato sotto il profilo
del vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (Cass. 28 ottobre 2010,
n. 22022; Cass. 3 gennaio 2011, a 72; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4416). 11.- Va aggiunto che la Corte
bresciana ha pure fatto un uso improprio della relazione della c.tu. in quanto non solo non ha correttamente
valutato, in conformità con i principi fin qui riportati, la parte medico-legale della relazione stessa, ma se ne è
anche avvalsa per valutazioni di tipo squisitamente giuridico, inammissibilmente effettuate dal consulente e
recepite pedissequamente nella sentenza impugnata. In base ad un consolidato e condiviso indirizzo di
questa Corte, la consulenza tecnica ha un limite intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione
di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché così come i consulenti
tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la
conformità al diritto di comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente effettua, di propria iniziativa,
simili valutazioni non se ne deve tenere conto, a meno che esse vengano vagliate criticamente e sottoposte
al dibattito processuale delle parti (arg. ex Cass. SU 6 maggio 2008, n. 11037; Cass. 4 febbraio 1999, n.
996). Nella specie sulla scorta della consulenza tecnica – recepita, anche su questo punto, senza alcun
vaglio critico – la Corte bresciana ha ritenuto che l’eventuale sopravvenuta incompatibilità delle mansioni
rispetto all’aggravamento delle condizioni di salute della lavoratrice non potrebbe mai far sorgere una
responsabilità colposa del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., data l’accertata assenza di una
richiesta in tal senso da parte della lavoratrice stessa. Tale affermazione appare erronea, non solo per la
suindicata questione di “metodo” (derivante dalla sua desunzione dalla relazione del c.t.u.), ma anche nel
merito, perché è in contrasto con i seguenti consolidati principi affermati in materia da questa Corte, che il
Collegio condivide: a) alla stregua dell’art. 10, primo comma, della legge n. 482 del 1968 (sulla disciplina
generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l’applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del
normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle
assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità (Cass. 20 marzo 1990, n. 2302; Cass. 16
aprile 1986, n. 2697); b) tuttavia, nell’ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai
sensi della legge 12 aprile 1968 n. 482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non
possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini del diritto alla conservazione del posto di lavoro
ex art. 2110 cod. civ., se l’invalido sia stato destinato a mansioni incompatibili con le sue condizioni fisiche (in
violazione dell’art. 20 della legge n. 482 del 1968), derivando in tal caso l’impossibilità della prestazione dalla
violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica del lavoratore (Cass. 15
dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730); c) inoltre, al fine di accertare l’obiettiva
incompatibilità fra le malattie che determinano le assenze dal lavoro e la condizione di invalidità del
dipendente assunto obbligatoriamente, non si può non prendere in considerazione il principio
dell’equivalenza causale di cui all’art. 41 cod. pen. che trova, come noto, applicazione anche nel settore
degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e, comunque, rispetto agli obblighi di tutela ex art.
2087 cod. civ., imponendo di riconoscere un ruolo di concausa anche ad elementi che, in ipotesi, possano
avere una influenza causale minima (vedi, per tutte: Cass. 23 dicembre 2003, n. 19682; Cass. 30 dicembre
2009, n. 27845); d) conseguentemente, sia le assenze derivanti da malattie aventi un collegamento causale
diretto con le mansioni svolte dall’invalido, sia le assenze derivanti da malattie rispetto alle quali le mansioni
svolte abbiano solo un ruolo di concausa devono essere escluse da quelle utili per la determinazione del
periodo di comporto, tenuto conto sia del diritto del lavoratore – tanto più se invalido – di pretendere, sia,
correlativamente, dell’obbligo del datore di lavoro di ricercare una collocazione lavorativa idonea a
salvaguardare la salute del dipendente nel rispetto dell’organizzazione aziendale in concreto realizzata
dall’imprenditore (arg. ex: Cass. 30 dicembre 2009, n. 27845 cit.); e) in particolare, nel caso di un rapporto
di lavoro instaurato con un prestatore invalido, assunto obbligatoriamente a norma della legge 2 aprile 1968
n. 482, il datore di lavoro, che a norma dell’ex art. 2087 cod. civ. deve adottare tutte le misure necessarie
per l’adeguata tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, deve in ispecie in
osservanza delle disposizioni della detta legge far sì che le mansioni alle quali il lavoratore invalido viene
adibito siano compatibili con la sua condizione (Cass. 4 aprile 1989, n. 4626; Cass. 18 aprile 200, n. 5066;
Cass. 7 aprile 2011, n. 7946); f) in questo ambito, gli accertamenti sanitari di cui all’art 5 della legge n. 300
del 1970, attengono proprio all’interesse del datore di lavoro di controllare l’idoneità fisica del lavoratore,
diversamente dagli accertamenti sanitari previsti dalle norme concernenti particolari istituti della sicurezza
sociale, che sono finalizzati a soddisfare l’interesse del lavoratore ad un determinato trattamento
previdenziale-assicurativo diretto a soccorrere o ad attenuare lo stato di bisogno conseguente alle