in cui le affermazioni contenute nell’elaborato peritale siano oggetto, nella impostazione difensiva della parte,
di critiche precise e circostanziate idonee, se fondate, a condurre a conclusioni diverse da quelle indicate
nella consulenza tecnica (Cass. 4 marzo 1983, n. 1628); 3) in tal ultimo caso, non adempie al predetto
obbligo di motivazione il giudice che, per confutare le suddette critiche, si limita a generiche affermazioni di
adesione al parere del consulente (Cass. 23 giugno 1995, n. 7150; Cass. 24 novembre 1997, n. 11711;
Cass. 22 febbraio 2000, n. 1975; Cass. 1 marzo 2007, n. 4797; Cass. 24 aprile 2008, a 10688); 4)
comunque, le valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio non hanno efficacia vincolante per il
giudice ed egli può legittimamente disattenderle, purché lo faccia attraverso una valutazione critica che sia
ancorata alle risultanze processuali e risulti congniamente e logicamente motivata, dovendo il giudice
indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato,
ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla
decisione contrastante con il parere del c.t.u. nonché, trattandosi di una questione meramente tecnica,
fornendo adeguata dimostrazione di avere potuto risolvere, sulla base di corretti criteri e di cognizioni
proprie, tutti i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione (Cass. 3
marzo 2011, n. 5148; Cass. 30 ottobre 2009, n. 23063); 5) peraltro, il controllo del giudice sulle conclusioni
del c.t.u. non può in ogni caso mancare quando si tratti di prendere atto delle premesse del detto
ragionamento e di verificarne la congruenza logica perché i vizi del processo logico seguito dal consulente si
ripercuotono sulla motivazione della sentenza adesiva, senza specifiche argomentazioni, alle conclusioni
stesse, in quanto il giudice deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata su una questione
tecnica rilevante per la definizione della causa (Cass. 3 gennaio 2011, n. 72; Cass. . 21 agosto 1982, n.
4696; Cass. 26 novembre 1977, n. 5169); 6) in tale ultimo caso, infatti, gli errori e le lacune della consulenza
medico-legale divengono suscettibili di esame in sede di legittimità – ovviamente, soltanto sotto il profilo del
vizio di motivazione della sentenza – perché la relativa prospettazione non si traduce in un mero “dissenso
diagnostico”, cioè nella semplice difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del
dato patologico e la valutazione della parte, ma attinge lo stesso processo logico che sorregge – per il
tramite della relazione del c.t.u. – la decisione ( arg. ex: Cass. 12 gennaio 2011, n. 569; Cass. 11 gennaio
2011, a 459; Cass. 8 novembre 2010, n. 22707).
10.- Nella specie i suddetti principi sono stati disattesi dalla Corte d’appello di Brescia. Infatti, la domanda
originaria della lavoratrice – attraverso il richiamo anche dell’art. 2087 cod. civ. – si incentrava sulla non
computabilità nel periodo di comporto delle assenze per malattia contestatele nella lettera di licenziamento
perché derivanti da malattie causate dalle mansioni cui era stata adibita, incompatibili con il proprio stato di
invalidità. Non veniva, invece, in considerazione la diversa deduzione della non computabilità delle assenze
medesime perché conseguenti a malattie riconducibili tout court alla minorazione della (…).
Conseguentemente, il fulcro dell’indagine medico-legale doveva considerarsi rappresentato
dall’accertamento della correlazione, o meno, tra le mansioni espletate e le conseguenti malattie, sulla base
del quadro clinico che ha determinato il riconoscimento dell’invalidità e non, invece, dalla correlazione diretta
– cioè senza includere le mansioni svolte – tra le patologie sulla base delle quali è stata riconosciuta
l’invalidità e quelle che hanno determinato le assenze rilevanti per il superamento del periodo di comporto.
Viceversa dalla lettura della sentenza impugnata risulta che è stato proprio quest’ultimo il campo di indagine
della c.t.u. di primo grado e che la Corte bresciana – benché nella parte iniziale della motivazione dia
l’impressione di inquadrare dal punto di vista teorico la fattispecie in modo corretto – nel fare applicazione
dei richiamati principi al caso sub judice se ne è discostata diametralmente, perché ha recepito in toto le
conclusioni del c.t.u. stesso dando luogo a risultati del tutto illogici e inadeguati rispetto all’oggetto del
giudizio. Dalla sentenza stessa risulta infatti che, soprattutto per le patologie che hanno determinato le
assenze più lunghe (due interventi chirurgici per tunnel carpale, prima sinistro e poi destro, nonché altri due
interventi chirurgici per ernia discale lombare) le conclusioni del c.t.u. si sono concentrate sulla
evidenziazione della mancata riconducibilità delle patologie stesse a quelle per le quali la lavoratrice è stata
riconosciuta invalida (nel 1993, cioè ben cinque anni prima dell’assunzione al lavoro). Da tali conclusioni
viene desunta la compatibilità delle mansioni – di addetta alla finitura e inscatolamento di uova o piccoli
oggetti di cioccolata, svolte per lungo tempo in piedi – cui era stata adibita la (…) nel cui quadro patologico
di diabetica erano presenti, fin dal 1993, anche la spondiloartrosi e l’obesità – e le menomazioni della
lavoratrice stessa. È invece evidente che le conclusioni non collimano, dal punto di vista logico-giuridico, con
l’esclusione di una correlazione tra l’insorgere delle – in ipotesi – “nuove” patologie e i compiti assegnati alla
(…), tanto più che è nozione di comune esperienza che sia la sindrome del tunnel carpale sia l’ernia discale
lombare spesso sono dovute a una combinazione di fattori e che gli studiosi non escludono che i movimenti
ripetitivi e forzati della mano e del polso durante il lavoro (presumibilmente necessari per l’espletamento
delle mansioni affidate alla (…) possano causare la sindrome del tunnel carpale, così come pongono tra i
fattori di rischio per l’ernia discale lombare il peso corporeo in eccesso (come causa supplementare di stress
sui dischi intervertebrali) e lo svolgimento di attività lavorative comportanti il prolungato stare in piedi nella
medesima posizione.
È sintomatico della illogicità della decisione che in essa, a tale ultimo riguardo, si affermi -sulla scorta delle
valutazioni del c.t.u. secondo cui, in primo luogo, «il prolungamento di una postura, di per sé, non determina
uno stato di patologia se non quando la stessa è “scorretta”, indipendentemente che la persona stia in piedi
o seduta» e, in secondo luogo, tra i fattori di rischio dell’ernia discale rientrano «la sedentarietà e le posture