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possibili cause di nullità o inefficacia espressamente previste dal citato primo comma ai fini della predetta
reintegra, sia perché si è in presenza di un vizio che si concretizza, in realtà, in una forma di inadempimento
della parte datoriale ai generali doveri di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori che attiene
propriamente alla fase successiva ed attuativa della comunicazione del provvedimento espulsivo, senza alcun
concorso alla formazione della causa che ha dato origine al recesso datoriale. In definitiva può ritenersi che
si è in presenza di un vizio funzionale e non genetico della fattispecie sanzionatoria, per cui nemmeno è
condivisibile l’orientamento (Cass. sez. lav. n. 2513 del 31.1.2017) secondo cui il fatto non tempestivamente
contestato dal datore di lavoro dovrebbe essere considerato insussistente, con violazione radicale dell’art. 7
dello statuto dei lavoratori che impedirebbe al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso fatto
anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Al contrario, il fatto oggetto di addebito disciplinare è
pur sempre valutabile dal giudicante, il quale dovrà solo verificare se l’inadempienza al generale principio
dell’immediatezza della contestazione finisca per inficiare la validità del licenziamento, per individuare poi il
tipo di tutela applicabile.
8. Per quel che riguarda, invece, il regime della tutela reintegratoria attenuata il quarto comma dell’art. 18,
nel testo introdotto dalla legge n. 92/2012, stabilisce che il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non
ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per
insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione
conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla
il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma
e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del
licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel
periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto
percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura
dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Orbene, il caso in esame non è riconducibile a tale previsione normativa per la semplice ragione che
quest’ultima presuppone che la mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta
causa sia dovuta alla insussistenza del fatto contestato ovvero alla sua ascrivibilità alle condotte punibili con
una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili,
mentre nella fattispecie in esame il fatto posto a base dell’addebito era stato accertato prima che lo stesso
venisse contestato, seppur con notevole ritardo, al lavoratore, né emerge che fosse riconducibile ad una
previsione collettiva di applicazione di sanzione conservativa.
Tra l’altro, è interessante notare che il settimo comma dell’art. 18 prevede che il giudice applichi la medesima
disciplina di cui al quarto comma nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento
intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per
motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero nel caso che il
licenziamento sia stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile (recesso
per decorrenza dei termini stabiliti dalla legge o dagli usi o secondo equità nei casi di sospensione del
rapporto di lavoro per infortunio, malattia, gravidanza e puerperio), stabilendo, nel contempo, che il giudice
può applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ebbene, anche in tali ipotesi di giustificato motivo oggettivo del licenziamento, così come nella previsione
normativa di cui al primo e al quarto comma del citato art. 18, si è in presenza di fattispecie prefigurate dal
legislatore ai fini dell’applicabilità della tutela reale depotenziata.
In definitiva, la insussistenza o la manifesta insussistenza che legittima l’accesso alla tutela reintegratoria
attenuata non può non riguardare il difetto – nel medesimo fatto – di elementi essenziali della giusta causa
o del giustificato motivo, tanto più che la riforma in esame di cui alla legge n. 92 del 2012 non ha modificato,
per quel che qui interessa, le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla legge n. 604 del 1966, laddove
stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119
cod. civ. o per giustificato motivo.
Quindi, nelle ipotesi (come quella oggetto di causa) in cui sia, invece, accertata la sussistenza dell’illecito
disciplinare posto a base del licenziamento, ma questo non sia stato preceduto da tempestiva contestazione,
si è fuori dalla previsione di applicazione della tutela reale nella forma attenuata di cui al quarto comma del
novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori (estesa anche all’ipotesi di cui al comma settimo concernente il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo) che è, invece, contemplata per il caso di licenziamento
ritenuto gravemente infondato in considerazione dell’accertata insussistenza (o manifesta insussistenza per
l’ipotesi di cui al citato settimo comma) del fatto.