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novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nel caso di rilevante tardività della contestazione disciplinare,
dopo aver precisato che prima della riforma introdotta dalla legge n. 92/2012 la giurisprudenza di legittimità
era concorde nel ritenere che l’immediatezza del provvedimento espulsivo configurasse un elemento
costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la mancanza di tempestività della
contestazione o del licenziamento induceva ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro avesse
soprasseduto al licenziamento stesso, considerando non grave o non meritevole della massima sanzione la
colpa del lavoratore (in tal senso v. Cass. sez. lav. n. 2902 del 13.2.2015, n. 20719 del 10.9.2013, n. 1995
del 13.2.2012 e n. 13167 dell’8.6.2009).
5. Tale orientamento è stato di recente confermato con la sentenza n. 2513 del 31.1.2017 della Sezione
lavoro di questa Corte, in una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio, in relazione ad un
licenziamento disciplinare tardivo intimato sotto la vigenza della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 92
del 2012, affermandosi che un fatto non tempestivamente contestato dal datore di lavoro non può che
essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 del novellato statuto
dei lavoratori, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva
dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. Si è, in pratica, ritenuto che, dal momento
in cui il fatto non è stato contestato idoneamente ex art. 7 I. n. 300/70, lo stesso è “tanquam non esset” e,
quindi, insussistente ai sensi del novellato art. 18, in quanto sul piano letterale la norma parla di insussistenza
del “fatto contestato” (cioè contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare
anche l’ipotesi in cui il fatto sia stato contestato in aperta violazione del citato art. 7 a causa del notevole
ritardo nella elevazione dell’addebito disciplinare.
6. Osserva la Corte che il terzo motivo del ricorso principale è fondato, seppur nei limiti che di qui appresso
saranno specificati.
Invero, va tenuto conto del fatto che con la legge n. 92 del 2012 (riforma Fornero) si assiste ad una modifica
dell’art. 18, nel senso che accanto alla tutela reale, la quale rappresenta il massimo livello di protezione per
sanzionare un illecito, viene prevista una tutela meramente indennitaria. I regimi di cui si parla nel nuovo
art. 18 sono i seguenti: a) quello della tutela reintegratoria piena (disciplinato dai primi tre commi dell’art.
18); b) quello della tutela reintegratoria attenuata (comma 4); c) quello della tutela indennitaria forte
(comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) quello della tutela indennitaria limitata (comma 6), che
oscilla tra le 6 e le 12 mensilítà.
L’odierna formulazione dell’ art. 18 prevede una tutela reale piena, consistente nella reintegrazione e nel
risarcimento del danno per l’intero periodo che va dal alla effettiva reintegra, indipendentemente dal motivo
formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, nei casi in cui il
giudice dichiari la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio
1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari
opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti
di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia
di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e
successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o dovuto ad
un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile (conclusione esclusiva del contratto
per un motivo illecito comune ad entrambe le parti) o quando il giudice dichiari inefficace il licenziamento
perché intimato in forma orale. In caso di tutela reale piena, oltre alla reintegra, è previsto anche un
risarcimento che non può mai essere inferiore a 5 volte l’ultima retribuzione percepita dal dipendente al
momento dell’illegittimo , dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre
attività lavorative.
7. Ebbene, va subito detto che il caso di cui ci si occupa non trova collocazione in alcuna delle ipotesi tipiche
elencate nel primo comma del novellato art. 18 ai fini dell’applicabilità della tutela reale piena,
rappresentando queste ultime delle specifiche ipotesi di nullità o inefficacia espressamente prefigurate dalla
stessa norma. Non va, infatti, sottaciuto che nel caso di specie il licenziamento venne intimato il 18.2.2013
a C. Bruno per il fatto che nel periodo febbraio-settembre 2010, in qualità di preposto alla “linea family”,
aveva consentito o, comunque, favorito (coinvolgendo il personale di sportello) la negoziazione di n. 37
assegni bancari per complessivi euro 455.383,11 in violazione della relativa normativa, permettendo così ai
clienti e non della filiale di incassare (per lo più in contanti) il retratto di numerosi titoli tratti su banche
corrispondenti, spesso fuori piazza. E’, pertanto, evidente che la motivazione del licenziamento intimato a
C. esula dai casi previsti dal primo comma del citato art. 18 ai fini della dichiarazione di illiceità o inefficacia
per i quali opera la tutela reintegratoria piena. Né, tantomeno, può sostenersi che il rilevante ritardo di due
anni nella contestazione dell’addebito disciplinare rispetto ai fatti in precedenza accertati possa integrare
una causa di nullità o inefficacia del licenziamento sanzionabile con l’ordine di reintegra di cui al primo
comma del novellato art. 18 della legge n. 300/70, sia perché l’ipotesi in esame non è contemplata tra le