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1. Con tale motivo si sostiene la violazione o falsa applicazione dell’art. 18, comma 6, della legge n. 300 del
1970, in relazione all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale ed ai principi in materia di rapporti tra
la disciplina di legge generale e quella della legge speciale, oltre che dell’art. 7 L. n. 300/1970, in relazione
agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. nonché agli artt. 1324, 1325 e 1418 cod .civ.
Osserva la ricorrente che nell’impugnata sentenza risultano violati i principi in materia di rapporti tra legge
generale e legge speciale e di interpretazione della legge, laddove si sostiene che l’ipotesi oggetto di causa
si porrebbe prima e al di fuori della casistica dell’art. 18 L. n. 300/70, poiché, pur sussistendo il fatto e gli
estremi della giusta causa, sarebbe tuttavia venuto meno il diritto di recesso datoriale in conseguenza di un
fatto negoziale di natura abdicativa, rappresentato dal trascorrere del tempo utile per esercitare il relativo
potere, unitamente a comportamenti concludenti della stessa datrice di lavoro; che aveva adibito il
dipendente C.B. a mansioni di rilevante fiducia pur dopo la scoperta dei fatti oggetto di addebito disciplinare.
Si obietta sul punto che la disciplina di cui all’art. 18 L. n. 300/70, come novellato all’indomani della legge
n. 92/2012, si incarica di individuare in maniera analitica ed esaustiva tutti i possibili vizi del recesso datoriale
ed i conseguenti rimedi spettanti al lavoratore, per cui rimane preclusa all’interprete la possibilità di sostenere
che un’ipotesi di nullità o illegittimità del recesso datoriale debba invece trovare disciplina fuori dall’art. 18
della legge n. 300/70.
2. Non condivisibile, prosegue la ricorrente, è poi l’affermazione della Corte d’appello di Firenze secondo cui
la tardiva contestazione, come quella in oggetto, non sia sempre suscettibile di integrare un vizio
procedimentale del recesso. Invero, la semplice lettura dell’art. 7 della legge n. 300/70 rende evidente, per
la difesa della Banca, che è proprio questa disposizione a regolamentare il procedimento che, dalla
contestazione disciplinare, conduce all’irrogazione del licenziamento, con la conseguenza che il ritardo
nell’espletamento di questa procedura costituisce un vizio della stessa e trova la propria regolamentazione
all’interno del sesto comma del nuovo art. 18 che, in caso di accertata violazione a carattere procedurale,
prevede la risoluzione del rapporto di lavoro con riconoscimento al dipendente di una mera indennità
risarcitoria determinata, in relazione alla gravità della violazione procedurale, tra un minimo di sei ed un
massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Quindi, considerato che non può esservi
alcun dubbio sul fatto che l’intempestività della contestazione si configuri come vizio procedimentale,
secondo la ricorrente si perviene ad una conclusione analoga anche alla luce delle norme di cui agli artt.
1175 e 1375 cod. civ., quali referenti normativi della regola di tempestività della contestazione. Anche tale
disposizione sancisce regole di condotta e, dunque, di procedura, con la conseguenza che la loro ipotetica
violazione resta ascritta al genus delle violazioni procedimentali suscettibili della sola tutela indennitaria di
cui al citato comma 6 dell’art. 18 L. n. 300/70. Regole di condotta la cui trasgressione non può mai condurre,
secondo il presente assunto difensivo, all’invalidazione di un atto, ma solo al risarcimento del danno.
3. Inoltre, secondo la ricorrente, la tesi della nullità del licenziamento, così come sostenuta nella sentenza
impugnata, si espone a critica sotto un ulteriore profilo, in quanto non ricorre nella specie alcuna delle ipotesi
integranti un vizio di nullità alla luce degli artt. 1418 e 1325 cod. civ. (difetto strutturale della fattispecie,
contrarietà a norma imperativa, esistenza di un interesse illecito), applicabili ex art. 1324 cod. civ. anche
agli atti unilaterali tra vivi con contenuto patrimoniale. Erronea è ancora, secondo la ricorrente, la sentenza
d’appello nel punto in cui si ritiene che l’inerzia della datrice di lavoro, accompagnata dal comportamento
concludente – consistente nell’aver adibito C. a mansioni di rilevante fiducia – possa integrare un fatto
negoziale di rinuncia al diritto di recesso e dare luogo alla nullità di quest’ultimo. Inoltre, si ritiene non essere
conferente il richiamo al precedente n. 9929/2004 della Suprema Corte che fa riferimento all’esigenza di
tutela dell’affidamento creatosi nel lavoratore in ordine al fatto che il diritto di recesso datoriale non sia più
esercitato, in quanto la valutazione secondo buona fede della condotta del datore di lavoro non può condurre
ad una qualificazione di nullità del recesso.
Diversamente, si ammetterebbe l’ingresso nel nostro ordinamento della ipotesi dell’estinzione di una
situazione giuridica soggettiva che può essere fatta dipendere da un’inerzia del titolare quand’anche non si
protragga per il tempo necessario alla maturazione della prescrizione, vanificandosi l’esigenza di certezza
alla quale è funzionale tale istituto.
Infine, si afferma che non è condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la tardività farebbe
venir meno uno degli elementi costitutivi del diritto di recesso e il corrispondente vizio dovrebbe essere
verificato d’ufficio dal giudice: orbene, proprio quest’ultima precisazione dimostrerebbe, secondo la difesa
della Banca, che la fattispecie cui fanno riferimento i precedenti richiamati contempla l’insussistenza del
fatto, situazione, questa, non ricorrente nel caso in esame, così come accertato dalla stessa Corte territoriale.
4. Con l’ordinanza interlocutoria n. 10159 del 2017 la Sezione Lavoro di questa Corte ha richiamato i due
orientamenti contrastanti di legittimità che si sono registrati in ordine alla tutela da applicare, alla luce del