- (ratificata e resa esecutiva dall'Italia con la L. n. 18 del 2009), deve essere intesa nel senso di
......
i nm
' r erirsi ad una limitazione risultante in particolare da meoazioni fisiche, mentali o psichiche
urature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed
effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza
con gli altri lavoratori; e) pertanto l'espressione "disabile" utilizzata nell'art. 5 della direttiva
2000/78/CE deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una
disabilità corrispondente alla definizione enunciata nel punto precedente.
Conseguentemente, con il D.L. n. 76 del 2013, convertito dalla L. n. 99 del 2013, al
D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3 è stato aggiunto il comma 3 bis, secondo cui: "Al fine di
garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori
di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti
dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi
della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con clisabilità la
piena eguaglianza con gli altri lavoratori.
I
datori di lavoro pubblici devono provvedere
all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con
le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente".
È pertanto evidente che, ai fini della valutazione della domanda del De Simone e del
comportamento dell'Agenzia delle Entrate che ne è alla base, non si possa non dare rilievo sia
alla Convenzione ONU regolarmente ratificata, sia alla direttiva 2000/78/CE (recepita dal
nostro Paese), sia alla citata sentenza di condanna della CGUE, tanto più che il medesimo
risultato è già ottenibile in base ad una interpretazione della normativa applicabile
costituzionalmente orientata all'art. 3 Cost., che è finalizzato ad assicurare alle categorie a
rischio discriminazione - solo esemplificativamente indicate nel comma 1 - "uno statuto
effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico" (vedi, per tutte: Corte
cost. sentenza n. 109 del 1993 nonché Cass. 6 aprile 2011, n. 7889 e Cass. 9 luglio 2015, n.
14348).
III
-
Conclusioni
3.- Per tutte le suesposte ragioni il ricorso deve essere accolto.
La sentenza impugnata la quale - muovendo da una incompleta ed erronea valutazione
del contenuto della domanda giudiziale proposta dall'attuale ricorrente - non ha tenuto conto
dei suddetti principi, deve essere, pertanto, cassata, con rinvio, anche per le spese del
presente giudizio di cessazione, alla Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione, che si
atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e,
quindi, anche al seguente:
L'attribuzione dei buoni pasto, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte,
rappresenta una agevolazione di carattere assistenziale che, nell'ambito dell'organizzazione
dell'ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane
del dipendente, offrendogli - laddove non sia previsto un servizio mensa - la fruizione del
pasto - i cui costi del lavoro pubblico contrattualizzato vengono assunti dall'Amministrazione di
appartenenza - al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la proseguire
l'attività lavorativa, il cui orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per
la fruizione del beneficio. La garanzia del benessere fisico del lavoratore comporta di per sé la
tutela della salute del lavoratore stesso e a maggior ragione della sua disabilità, tanto più in
considerazione del carattere sostanzialmente assistenziale della relativa prestazione. Pertanto,
l'Amministrazione datrice di lavoro è tenuta a prendere in considerazione le esigenze dei
dipendenti la cui situazione di disabilità possa impedire la concreta fruibilità dei buoni pasto
7
Corte di Cassazione - copia non ufficiale