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giudizio, non avendo ricevuto tale rimborso, al fine di ottenere, in via giudiziale, una somma
corrispondente a quanto speso per i suddetti pasti e, in via subordinata, il risarcimento dei
danni patiti in conseguenza del suddetto comportamento della datrice di lavoro.
2.4.- Nella suindicata situazione è del tutto evidente che la censura fondamentale
proposta dal lavoratore non era quella di ottenere la sostituzione dell'attribuzione del buono
pasto con la corresponsione dell'equivalente in denaro, ma piuttosto era quella di ottenere un
risarcimento - che, infatti, non è stato richiesto con commisurazione al valore dei buoni pasto
non utilizzati e restituiti - per essere stato danneggiato dalla corresponsione da parte
dell'Agenzia di buoni pasto che per il De Simone non erano spendibili, in considerazione della
sua condizione di persona non vedente che ne limita la capacità di spostamento, si può
aggiungere, specialmente dovendosi rispettare la durata limitata e predeterminata della pausa,
entro la quale va consumato il pasto.
2.5.- La Corte territoriale - pur avendo riferito, nello "svolgimento del fatto" della
sentenza impugnata, che l'appello proposto dal lavoratore censurava, in via principale, la
mancata considerazione, da parte del Giudice di primo grado, dell'aspetto centrale delle
dogilanze, rappresentato dalla rilevata materiale non spendibilità da parte del De Simone dei
buoni pasto forniti dalla Amministrazione - al pari del primo giudice, non ha esaminato tale
censura ed ha respinto l'appello sul principale assunto secondo cui: i buoni pasto non possono
essere liquidati per equivalente, come integrazioni retributive in denaro, non rientrando nel
sinallagma contrattuale del rapporto di lavoro in oggetto.
In tal modo la Corte salernitana, senza centrare il fulcro delle cloglianze, ha trattato la
presente controversia come se in essa il lavoratore avesse chiesto di ottenere il valore dei
buoni pasto come elemento integrativo della retribuzione, mentre l'oggetto delle censure del
De Simone era diverso e avrebbe richiesto una differente valutazione.
Tale erroneità di approccio risulta confermata anche dal richiamo, contenuto nella
sentenza impugnata, a Cass. 17 luglio 2003, n. 11212 e Cass. 1. luglio 2005, n. 14047, visto
che, come risulta anche dal testo della massima riportato dalla Corte salernitana, tali sentenze
hanno esaminato fattispecie nelle quali veniva in rilievo la questione della sussistenza o meno
per il datore di lavoro dell'obbligo di corrispondere all'INPS i contributi di previdenza e
assistenza sociale sulle somme erogate per il servizio di mensa aziendale.
Quindi una problematica del tutto diversa da quella che è alla base della presente
controversia.
2.6.- Peraltro nelle due sentenze richiamate - e anche nella sentenza della Corte
salernitana qui esaminata - è stato anche ribadito il fermo indirizzo di questa Corte secondo
cui il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della
retribuzione concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al
rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168;
Cass. 17 luglio 2003, n. 11212; Cass. 1 luglio 2005, n. 14047; Cass. 21 luglio 2008, n. 20087;
Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Gess. 6 luglio 2015, n. 13841).
Deve essere, al riguardo, precisato che il buono pasto è un beneficio che non viene
attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell'ambito
dell'organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze
quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita - laddove non sia previsto un servizio
mensa - la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall'Amministrazione, al fine di
garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa,
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Corte di Cassazione - copia non ufficiale