CircolariABI serie Lavoro n. 100 - 28 ottobre 2011
ASSICURAZIONI SOCIALI (Pos. LL/8230.G)
AMMORTIZZATORI SOCIALI (Pos. LL/8220.H)
Demansionamento della lavoratrice madre - Art. 56, D.Lgs. n. 151/2001 - Contratti di
solidarietà difensivi - Utilizzo del contributo di solidarietà - Art. 5, comma 5, L. n. 236/1993 -
Chiarimenti del Ministero del Lavoro
Si informano gli Associati che il Ministero del Lavoro, con nota del 21 settembre 2011, prot.
25/I/0003179 (reperibile sul sito www.lavoro.gov.it ), ha fornito taluni chiarimenti relativamente alle
questioni in oggetto indicate, in risposta ad una specifica richiesta di interpello avanzata dal
Consiglio Nazionale dell’ Ordine dei Consulenti del Lavoro.
Le problematiche sottoposte al suddetto Dicastero sono principalmente due. La prima riguarda la
corretta interpretazione del disposto di cui all’ art. 56 del D.Lgs. n. 151/2001, con riferimento alle
modalità di esercizio del diritto della lavoratrice al rientro e alla conservazione del posto
successivamente alla fruizione del periodo di astensione per maternità. L’ altra richiesta di
chiarimento verte sul contratto di solidarietà difensivo, di cui all’ art. 5, comma 5, legge n. 236 del
1993, in particolare sulla possibilità di continuare a fruire del contributo previsto dalla legge, nel
caso di licenziamento dell’ interessato per soppressione di un reparto o della funzione cui era
addetto il lavoratore in solidarietà, in caso d’ impossibilità di assegnazione a mansioni equivalenti,
nonché a seguito del rifiuto opposto dallo stesso lavoratore a sottoscrivere un accordo per essere
adibito a mansioni di grado inferiore.
Entrambe le problematiche sollevate si inseriscono nella cornice giuridica di cui all’ art. 2103 c.c. in
materia di mansioni.
Come noto, in forza di quanto stabilito dal menzionato articolo, il lavoratore non può essere adibito
a mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per le quali è stato assunto. La norma, infatti,
stabilisce che "Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto
o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione
(...) ogni patto contrario è nullo".
Circa l’ esatta portata del concetto di "equivalenza" di mansioni, il Ministero rammenta, che il
Legislatore non ne ha fornito un’ esplicita definizione, lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla
contrattazione collettiva il compito di individuare gli indici della stessa, al fine di verificare se siano
rispettati o meno i limiti fissati dall’ art. 2103 c.c.
Nella disamina effettuata, gli uffici ministeriali richiamano il consolidato orientamento della
giurisprudenza della Cassazione che, nell’ ambito di diverse pronunce, ha sostenuto la possibilità
di deroga al principio cardine che prevede la nullità di qualsiasi pattuizione volta a introdurre
modifiche peggiorative alla posizione del lavoratore, quando l’ accordo intervenga per il fine di
tutelare l’ interesse del prestatore di lavoro a mantenere il posto di lavoro (1) . In altri termini,
osserva il Ministero, il divieto di demansionamento deve essere interpretato alla stregua della
regola dell’ equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’ obiettivo di un’
organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla
conservazione del proprio posto di lavoro.
Il consenso del lavoratore e il fine perseguito, volto, come detto, ad evitare il determinarsi di
conseguenze pregiudizievoli - come la perdita dell’ occupazione - rendono quindi lecito l’ accordo
che prevede il demansionamento.
Tanto premesso, con riferimento alla prima questione oggetto di interpello, viene chiarito che
sembra potersi considerare lecito il patto di demansionamento, sottoscritto tra il datore e la