a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una
difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare, garanzia, quest’ultima, che non può certamente
essere vanificata da un comportamento del datore di lavoro non improntato al rispetto dei canoni di
correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
In effetti, la mancanza di tempestività della contestazione disciplinare può indurre nelle suddette ipotesi a
ritenere, fino a quando la stessa non venga eseguita, che il datore di lavoro voglia soprassedere al
licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del
lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, come costantemente affermato
in diversi precedenti di legittimità, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo,
quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richiedano uno spazio temporale maggiore ovvero quando
la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso,
restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto
giustificano o meno il ritardo.
Quindi, la violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare è
sanzionabile alla stregua del quinto comma del citato art. 18, da ritenersi espressione della volontà del
legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale, secondo il quale
il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o
della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del
licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva
determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale
di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle
dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica
motivazione a tale riguardo.
11. In sostanza, tirando le somme di quanto fin qui detto, può affermarsi che ciò che rileva dal punto di
vista disciplinare è un inadempimento, vale a dire una mancata o inesatta esecuzione della prestazione che
abbia arrecato pregiudizio all’interesse del datore di lavoro-creditore e di cui il prestatore di lavoro debba
essere ritenuto responsabile. Tuttavia, se da una parte rileva l’interesse del datore di lavoro al funzionamento
complessivo dell’impresa, dall’altra anche il datore di lavoro è tenuto all’osservanza di quei fondamentali
precetti che presiedono all’attuazione dei rapporti obbligatori e contrattuali e che sono scolpiti negli artt.
1175 e 1375 cod. civ., vale a dire i precetti di correttezza e buona fede, quanto mai importanti nell’esercizio
del potere disciplinare atto ad incidere sulle sorti del rapporto e sulle relative conseguenze giuridiche ed
economiche, ragion per cui deve essere improntato alla massima trasparenza.
Quindi, se il datore di lavoro viola tali doveri, ritardando oltremodo e senza un’apprezzabile giustificazione
la contestazione disciplinare, il problema non è più quello della violazione dell’art. 7 dello Statuto dei
lavoratori, quanto piuttosto l’altro della interpretazione secondo buona fede della volontà delle parti
nell’attuazione del rapporto di lavoro. Invero, posto che l’obbligazione dedotta in contratto ha lo scopo di
soddisfare l’interesse del creditore della prestazione, l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta
astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta
concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse. E se è vero che ciascun
contraente deve restare vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni
e ai propri comportamenti, la successiva e tardiva contestazione disciplinare non può che assumere il valore
di un inammissibile “venire contra factum proprium”, la cui portata di principio generale è stata ormai
riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità argomentando proprio sulla scorta della sua contrarietà ai
principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod .civ.
Con la conseguenza che, sussistendo l’inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendo tale
provvedimento preceduto da una tempestiva contestazione disciplinare a causa dell’accertata contrarietà del
comportamento del datore di lavoro ai canoni di correttezza e buona fede, la conclusione non può essere
che l’applicazione del quinto comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Diversamente, qualora le norme di contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per
la contestazione dell’addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata
da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell’alveo di applicazione del sesto comma del citato art.
18 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all’art. 7 della legge
n. 300 del 1970 e dell’articolo 7 della legge n. 604 del 1966.
12. In definitiva, il principio di diritto che va affermato nel caso di specie è il seguente: “La dichiarazione
giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e
non giustificato della contestazione dell’addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso,