CONTRO IL LAVORO PRECARIO STABILIZZATO
Gianfranco Suriano
Gli effetti della Legge 30 del 2003, con la quale sono state previste le varie forme di lavoro a termine, sono ben visibili nei numeri che quantificano il totale dei lavoratori occupati e di quelli che dopo la scadenza dei contratti temporanei risultano non più occupati.
In Italia, alla fine del 2006, i lavoratori precari sono 3.757.000, di cui 948.000 non più occupati. I dati, stimati per difetto, testimoniano come il fenomeno della precarietà del lavoro abbia assunto proporzioni considerevoli. Si impone, dunque, una riflessione sulle possibili implicazioni di carattere sociale che il fenomeno stesso più determinare nel nostro Paese.
L’attuale dibattito economico, sociale e politico relativo alle nuove condizioni di lavoro, venutesi a creare con l’applicazione delle diverse forme di contratto a termine, registra pareri contrastanti tra gli esperti del settore.
Non è facile esprimere un giudizio complessivo sugli effetti del lavoro flessibile in quanto a tutt’oggi, nonostante l’impegno di importanti Istituti di ricerca e statistica, non si è giunti ad una precisa definizione, sia in termini qualitativi che quantitativi, del mutamento occupazionale intervenuto nell’ultimo decennio.
Con assoluta cognizione di causa, viceversa, possiamo evidenziare le distorsioni che si verificano nell’applicazione delle forme di lavoro temporaneo. Infatti, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 9812 del 14 aprile 2008 ha dimostrato come un’azienda utilizzasse i contratti di collaborazione a progetto per usufruire di prestazioni lavorative di tipo subordinato.
In pratica è stato sentenziato che gli operatori dei call center hanno diritto ad un contratto di lavoro subordinato in quanto inseriti in modo stabile nell’organizzazione aziendale perché assoggettati al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro e perché obbligati ad osservare un orario di lavoro.
Questa è solo l’ultima di una serie di sentenze che testimoniano come le aziende abusino dei diversi contratti temporanei al fine di ottenere prestazioni di lavoro a più basso costo, senza garantire ai lavoratori i diritti più elementari. Se la flessibilità del lavoro è considerata dalle aziende solo come una mera opportunità da sfruttare per abbassare i salari, inevitabilmente dobbiamo concludere che gli interventi legislativi in materia di mercato del lavoro, introdotti con la Legge n. 30 del 14/2/2003, non produrranno, a regime, l’auspicato aumento occupazionale, inteso come creazione di nuovi posti di lavoro stabile, adeguatamente retribuito e con le giuste garanzie contrattuali.
In sostanza, l’attuale sistema di flessibilità del lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi, non costituisce un’opportunità, ma uno strumento mediante il quale si acquisisce lo status di precario a vita, una condizione cioè d’insicurezza economica che finisce per riguardare l’intera esistenza di milioni di lavoratori. Da una ricerca sull’occupazione e le forme di lavoro precario, commissionata dal Ministero del Lavoro e pubblicata alla fine del 2007, emergono diverse criticità tra cui la complessiva difficoltà nella trasformazione del lavoro temporaneo in lavoro permanente e l’uso distorto di alcuni strumenti contrattuali che dovrebbero agevolare il passaggio dal lavoro a termine al lavoro a tempo indeterminato e che invece non sono finalizzati al raggiungimento di tale obiettivo. Se questo è il quadro odierno, occorre necessariamente prevedere dei correttivi per regolamentare le varie forme di lavoro flessibile ed indirizzarle verso l’obiettivo di aumentare realmente l’occupazione.
A tale scopo sarebbe opportuno prevedere l’obbligo per le aziende, che usufruiscono delle agevolazioni, di trasformare una parte dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato; istituire un sistema di ammortizzatori sociali per chi rimane senza lavoro; approvare un regime sanzionatorio che preveda anche l’obbligo, sempre per le aziende, di assumere il lavoratore al quale arbitrariamente è stato applicato il contratto a termine. Una maggiore regolamentazione, attraverso l’adozione, per esempio, dei correttivi sopra descritti, renderebbe il ricorso al lavoro flessibile più equo, in quanto inserito in un sistema di regole rispettose dei diritti sociali e civili di ogni individuo.