LA VIOLENZA SULLE DONNE È VIOLENZA CONTRO TUTTI
Katia Maida
“Donna non si nasce, lo si diventa.”(Simone De Beauvoir)
L’essere donna è un percorso, un cammino individuale nella storia. In tutte le culture, fin dai primordi dell’umanità, la storia delle donne è stata condizionata pesantemente dal “corpo” e dalla maternità, attraverso cui hanno subito secoli di sottomissione. Il loro spazio sociale, tranne poche eccezioni, è stato, per secoli, confinato nell’ambito familiare e domestico per ampliarsi, notevolmente, solo nel Novecento con una prepotente, sofferta e spesso osteggiata entrata nella storia. Un lasso di tempo di decenni che ha visto svilupparsi la consapevolezza individuale e sociale delle donne e l’inizio di un lungo cammino scandito da lotte che hanno innescato processi di cambiamento irreversibile, determinando mutamenti sociali e legislativi, e affermato il diritto di essere donna (e non semplicemente esistere come…figlia di, madre di, moglie di…).
Si sono susseguite leggi che hanno trasformato radicalmente il rapporto di coppia e la posizione della donna rispetto alla maternità ed alla collettività, sancendo un diritto all’autodeterminazione individuale e un diritto di essere sociale. Nel 1969 è stato abolito il reato di adulterio (che puniva la donna e non l’uomo). Nel 1974 il Referendum sul divorzio ha vinto a larga maggioranza.
Nel 1971 veniva abrogato l’articolo che vietava l’uso degli anticoncezionali. Il 1975 è da considerarsi un anno fondamentale per l’emancipazione femminile: veniva realizzata la Riforma del diritto di famiglia che riconosceva, tra l’altro, la scomparsa dello “ius corrigendi” e stabiliva l’estensione della patria potestà ad entrambi i genitori, la comunione dei beni, il diritto di conservare il proprio cognome dopo il matrimonio, la scomparsa della distinzione tra figli legittimi ed illegittimi.
Il 1977 è stato il momento della legge sulle pari opportunità che, affermando il diritto della donna ad una parità nel mondo del lavoro, ha avviato un lungo percorso di riforme. Nel 1978 è arrivata la controversa legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, la 194, legge confermata definitivamente dal Referendum del 1980. Eppure, bisognerà attendere il 1981 per vedere abolito nel nostro Paese il delitto d’onore (dal famigerato Codice Rocco) e bisognerà ancora attendere il 1996 per vedere approvata in Parlamento, dopo 15 anni dalla presentazione del primo Ddl, la legge contro la violenza sessuale che considera lo stupro un reato contro la persona e non contro la morale.
La difficoltà di quest’ultimo percorso in particolare è stata – ed è – la difficoltà di approcciarsi ad un tema che attiene alla sfera più intima, forse la più fragile della relazione uomo-donna e che ha richiesto un salto culturale negli ambienti legislativi, ancora oggi, più popolati da uomini che da donne. La violenza sessuale è espressione, da sempre, di un substrato culturale che ha fatto e fa della donna un oggetto da sottomettere ed usare.
La rivendicazione dei diritti di uguaglianza e libertà, così come la condanna della violenza, ovunque essa si annidi, attenendo la sfera dei diritti primari di ogni essere umano sconta la condivisione, non è, e non può essere, patrimonio di genere, razza, religione, cultura. È riduttivo, forse anche più comodo, recintare fenomeni di violenza che scuotono la coscienza per la loro brutalità e gratuità, nell’ambito dell’eccezionalità di eclatanti e mostruosi episodi di cronaca, tenere i “mostri” lontano da noi, dalle nostre vite, dalle nostre case.
Ma quando guardiamo le statistiche ci accorgiamo che la violenza sulle donne è, drammaticamente, molto di più. Dai risultati di una grande indagine pubblicata dall’ISTAT nel 2007 che, per la prima volta in Italia, ha analizzato globalmente il fenomeno in tutti e tre gli aspetti della violenza contro la donna, fisica, sessuale e psicologica, dentro e fuori la famiglia, si possono estrapolare alcuni dati, per meglio comprendere la vastità del fenomeno. Considerata la popolazione femminile complessiva di donne la cui età è compresa tra i 16 ed i 70 anni, ben il 31,9% (pari a 6 milioni 743mila) ha subito violenza fisica o sessuale.
Il dato macroscopico è che i partner sono responsabili della quota più elevata di violenza fisica e del 69,7% degli stupri, seguiti dal 17,4% di familiari e conoscenti e solo il 6,2% perpetrati da estranei. Sono 7 milioni 134mila le donne che hanno subito o subiscono violenza psicologica, rilevabile quest’ultima secondo parametri clinici riconosciuti: denigrazione, controllo dei comportamenti, forte limitazione economica, strategie di isolamento, intimidazioni e minacce.
È necessario evidenziare che quasi la metà delle donne che hanno subito violenze continuate o stupri soffrono di perdita di fiducia e autostima, di sensazione di impotenza a reagire, disturbi del sonno, ansia e depressione, deficit di attenzione, difficoltà a gestire i figli, idee di suicidio e autolesionismo, tutti disturbi, come acclarato dalla letteratura psichiatrica, che accompagnano soggetti sottoposti a violenze sistematiche e prolungate. Nella quasi totalità dei casi, la violenza (compreso lo stupro) non viene denunciata e ciò che più colpisce è che, nel caso delle violenze che si sviluppano in ambito familiare, è per prima la donna ad avere difficoltà a considerarla reato (solo il 18,2%, contro un 44% che considera la violenza subita “qualcosa di sbagliato” e un 36% “qualcosa che è accaduto”). Consideriamo ancora che quasi il 20% delle violenze avvengono in presenza dei figli, e che 1 milione e 400mila donne hanno subito violenza prima dei sedici anni. Diventa imprescindibile, quindi, una messa in discussione di noi stessi, dei nostri modelli culturali e del modo in cui questi trasmettono i valori etici fondamentali, di cui il rispetto dell’altro è asse portante.
Nell’epoca in cui i sistemi di comunicazione ed Internet consentono una comunicazione globale, milioni di contatti, messaggi, parole e immagini trasmessi ogni secondo, la comunicazione affettiva tra individui si impoverisce, perde, sempre di più, il suo spazio ed il suo tempo. Perché ci vuole tempo, ci vogliono spazi per parlare ed ascoltare, per confrontarsi con se stessi e con l’altro, per sviluppare la stima di sé, per un’educazione etica, interiore ancor prima che collettiva, per guardare l’altro come persona e mai come oggetto. Non c’è lotta contro la violenza ed i soprusi, contro le ingiustizie ed ogni forma di oltraggio all’umanità che non cominci da un’analisi su se stessi. La legge ed il codice penale, strumenti fondamentali di tutela dei diritti degli individui, non possono, da soli, infondere il valore etico del rispetto di ogni essere umano.