LE REGOLE VIOLATE DEL MERCATO GLOBALE
Enzo Parentela
Il tema dell’economia globale è sempre stato caro al nostro giornale.
In molti articoli comparsi sulla nostra testata l’argomento della globalizzazione è stato affrontato sempre in chiave critica. A distanza di anni, da quando furono avviate le nuove regole, con gli accordi commerciali del WTO, l’eliminazione dei dazi, la liberalizzazione degli scambi, la privatizzazione della maggior parte delle aziende – sino ad allora di proprietà pubblica – oggi si potrebbe tentare una sorta di riassunto dei risultati ottenuti. Magari rileggendo anche i vecchi articoli pubblicati su “Al plurale” si potrebbe riscontrare, a posteriori, la congruità delle opinioni espresse. Naturalmente l’operazione di fare una verifica dell’impatto della economia globale sulle singole realtà economiche e sociali è difficilissima, se non impossibile, in mancanza di visioni di insieme, di dati statistici, soprattutto considerando le differenze tra gli Stati. Ci vorrebbe un vero e proprio centro studi internazionale in grado di fare analisi, comparazioni tra le diverse realtà economiche, analizzando tutti gli aspetti, le variabili, le migrazioni, gli impatti demografici e così via. Insomma un tema complesso, riservato ad addetti ai lavori e a istituzioni universitarie. Nel nostro piccolo, possiamo però azzardare delle ipotesi ed esprimere il nostro pensiero, soprattutto alla luce di come avvertiamo oggi il nostro mondo e come ricordiamo sia stato, prima di questa grande avventura economica che ha avuto inizio con l’economia globalizzata.
Intanto possiamo osservare che la crisi economica e finanziaria scoppiata alla fine dello scorso anno, con il crac di importanti Istituti finanziari e con il crollo di tutte le borse mondiali, ha visto reagire gli Stati con interventi che niente hanno a che vedere con i criteri imposti dalle regole del mercato globale. Negli USA lo Stato è intervenuto massicciamente per finanziare molte Aziende di credito in crisi, che altrimenti sarebbero collassate, con conseguenze disastrose per l’intero sistema finanziario mondiale. Ci domandiamo come si concilia questo con il libero mercato? L’intervento statale sulle imprese è sempre stato escluso, anzi demonizzato come un aiuto che viola le regole di libera concorrenza.
A quanto pare nessuna regola è intoccabile. E mentre la crisi avanza e, al momento, nessuno è in grado di intravederne la conclusione, cosa fanno i Governi? Quali sono i provvedimenti che sino ad ora sono stati adottati per fronteggiare la crisi? All’interno dei Paesi dell’Unione europea, si moltiplicano le iniziative comunitarie per avviare insieme la ricerca di possibili soluzioni. “Intanto che il medico studia il malato muore”, recita un vecchio proverbio.
Così, in Europa, dall’inizio dell’ultimo trimestre del 2008 a tutto il mese di gennaio 2009 si sono persi 130.000 posti di lavoro nel settore industriale. Le notizie di crac finanziari ed economici si susseguono, spesso minimizzate dai mezzi di informazione, come se questo bastasse a risolvere il problema. Sentiamo parlare di fabbriche in crisi, operai in mobilità e cassa integrazione, grosse aziende che licenziano il personale o cessano l’attività di interi stabilimenti. E siamo soltanto all’inizio.
Il Fondo monetario internazionale parla addirittura di previsioni tetre, azzardando per il nostro Paese non meno di due anni di recessione. Per cercare di arginare l’aumento vertiginoso della disoccupazione, così come in altre nazioni, anche in Italia è stato avviato un piano di sostegno per l’industria, soprattutto nel settore automobilistico che, al momento, appare come quello maggiormente colpito. Sembra però che molti Stati perseguano soluzioni nazionalistiche, inconciliabili con l’economia globalizzata.
L’Unione europea ha contestato, per questo motivo, il piano americano di sostegno all’economia, per via di una clausola che raccomandava che nei progetti finanziati dal Governo si impiegasse solo acciaio, ferro e prodotti manifatturieri americani.
Clausola successivamente mitigata dal Senato americano, dopo le proteste Europee e denominata per l’appunto “Buy american”. Anche dalla Francia si avvertono segnali di protezionismo, come avrebbe ventilato in alcune interviste il Presidente francese Nicolas Sarkozy.
Per non parlare, poi, della vicenda di una società italiana che ha vinto un appalto in Inghilterra e per questo è stata duramente contestata dai sindacati inglesi al grido di “British jobs for British workers” – vale a dire posti di lavoro inglesi per lavoratori inglesi. I sindacati con la loro azione hanno ottenuto, in seguito, l’assunzione di operai inglesi a fianco di quelli italiani. Ma non doveva esserci libera circolazione di merci e di lavoro? E non doveva il libero mercato favorire il lavoro, lo sviluppo, la libera concorrenza e la prosperità economica? Prosperità economica per chi? Le disuguaglianze sono aumentate.
Per dirla in un linguaggio crudo: i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri, mentre la cosiddetta classe media, è scivolata sempre più verso il basso ai confini della povertà. Nello stesso tempo, il divario tra i Paesi industrializzati e i Paesi poveri è aumentato spaventosamente. Basta pensare al continente africano dove persistono situazioni umanitarie catastrofiche che non trovano spazio, se non eccezionalmente, tra i media occidentali.
La tragedia che si vive in quei Paesi ci arriva, principalmente, attraverso la fuga di migliaia di disperati che clandestinamente cercano di raggiungere i paesi occidentali, per sfuggire ad un destino di povertà e di stenti. La crisi è iniziata negli Usa, patria del capitalismo e del libero mercato, con il fallimento di alcune banche, avvenuto secondo le leggi di mercato e con il salvataggio di altre banche, salvate dall’intervento statale contro le leggi di mercato. Non sarà stato piacevole per i risparmiatori che hanno visto svanire i propri risparmi, apprendere, dai giornali, che poco prima del crac la Lehman Brothers aveva distribuito qualche miliardo di bonus ai suoi dirigenti.
Così come non deve aver fatto piacere ai contribuenti americani apprendere che la Citigroup, dopo aver ricevuto 45 miliardi di dollari di finanziamento statale, aveva ordinato un lussuoso jet privato, ad uso dei suoi dirigenti, del costo di 50 miliardi di dollari.
Per la cronaca dopo le indiscrezioni della stampa l’ordine è stato annullato. Il Presidente USA, Barack Obama, con una logica assolutamente equa e cristallina, ha posto un tetto al compenso del management di aziende che ricevono aiuti dallo Stato. In modo analogo, per un criterio di equità e di equilibrio, non sarebbe affatto una pessima idea se in uno dei prossimi convegni internazionali dei G20, intervenisse una forma di regolamentazione anche per i profitti del management delle aziende che operano nei Paesi industrializzati, approvando al riguardo una norma di legge comunitaria da far sottoscrivere a tutti i governi, in ossequio alla globalizzazione.