LA PENSIONE DELLE DONNE
Emanuela Frosina
Ciclicamente, e soprattutto quando in Italia cambia Governo, ci si torna ad accapigliare sulle pensioni: su come riformarle, su come adeguarle.
Ed ogni volta che si parla di por mano alle pensioni, ritornano le solite polemiche sull’opportunità di posticipare l’età pensionabile delle donne: più numerose degli uomini e, soprattutto, più longeve. Premesso che non nutro alcuna simpatia nei confronti delle agevolazioni legislative che creino artificiose alterazioni delle condizioni di parità e pari opportunità (un esempio per tutti, le quote rosa in politica), trovo tuttavia che in questo caso la discussione debba essere più articolata, e tener conto di una realtà sociale e nazionale molto diversa da quella di altri Paesi europei che, a differenza del nostro, mandano a casa uomini e donne alla stessa età anagrafica.
In Italia, la parità uomo-donna è reale nel mondo del lavoro solo finché la lavoratrice è giovane e single. Non appena la malcapitata contrae matrimonio, e soprattutto quando ha l’ardire di partorire, la sua vita diventa un’acrobatica gimcana, tesa alla sopravvivenza del proprio equilibrio fisico e psichico in un labirinto irto di ostacoli. Sorvolo sulle tante, troppe ragazze tuttora costrette, all’atto dell’assunzione, dai propri padroncini a sottoscrivere in anticipo il proprio atto di volontario licenziamento: atto che viene usato contro di loro al bisogno (leggi: alla prima gravidanza).
Voglio parlare invece delle fortunate, assunte da aziende grandi, serie e rispettose delle leggi vigenti. La neo-sposa e neo-mamma si troverà, al rientro dal periodo di astensione previsto per legge, ad operare in un contesto lavorativo pensato ed attuato a misura di maschio: tutti i significativi avanzamenti di carriera e di retribuzione sono strettamente subordinati ad una grande disponibilità, alla mobilità territoriale e temporale. Così anche ai livelli inferiori: orari prolungati, improvvise esigenze di servizio, continui corsi di formazione in sedi diverse, nonché le famigerate riunioni (convocate quasi sempre all’ultimo momento e fuori dall’orario di lavoro per discutere di argomenti spesso triti e ritriti) sono chiaramente inconciliabili con pappe, orari dell’asilo, doposcuola, pasti familiari, incombenze domestiche e quant’altro sia indispensabile allo svolgimento di una comune ed ordinata vita familiare.
Sì, perché l’intera organizzazione domestica, ancora oggi, può considerarsi sulle spalle della donna. Un impegno totale, che deve coprire ogni concreta e minutissima esigenza, dai rapporti con gli insegnanti dei figli, all’assistenza ai familiari anziani o disabili, dalle malattie dei bambini al bucato, dalla cucina alla pulizia dell’abitazione, alla spesa settimanale. Nessuna meraviglia, se le donne italiane che lavorano sono appena il 40%, e se molte abbandonano il lavoro dopo il matrimonio e la nascita del primo figlio.
Se non si rientra nella felice categoria delle mogli coadiuvate da mariti-gioiello, servizievoli e collaborativi (ma esistono davvero?) o in quella delle eterne figlie che possono delegare ogni incombenza a genitori disponibili, oppure nell’ancor più rara categoria delle miliardarie per le quali il lavoro extra domestico è un piacevole hobby, essendo quello domestico svolto interamente da personale retribuito, la vita di una donna che lavora in Italia, per almeno tre decenni, viene scandita da ritmi e fatica che un uomo reputerebbe insostenibili. Senza alcun vittimismo, faccio semplicemente notare che quando un uomo ha ultimato il proprio orario di lavoro, va a giocare a carte o al calcetto, va a pescare o in palestra, oppure può piacevolmente rilassarsi in attesa della cena davanti al televisore o con un buon libro.
La donna, dopo otto ore di lavoro, chiude la porta dell’ufficio per vedersi schiudere davanti quella del suo secondo posto di lavoro, per di più, gratuito. Duole dover costatare, a distanza di molti anni dai primi ingressi delle donne nel mondo del lavoro, come le strutture e l’organizzazione di quest’ultimo non abbiano subito le modifiche che tale ingresso avrebbe dovuto comportare; e duole ancor più rilevare come ben poco sia mutato anche nella ripartizione dei ruoli all’interno delle mura domestiche. A questo punto, nessuno pensi che io auspichi, in dipendenza di tali osservazioni della realtà, che l’età pensionabile delle donne rimanga immodificabile ed anticipata di cinque anni rispetto a quella dei signori uomini.
Tutt’altro, sono d’accordo con l’onorevole Bonino, donna di grande ed acuta sensibilità politica (e non a caso single), che vede nella possibilità di anticipato pensionamento delle donne una specie di alibi, ovvero un risarcimento collettivo ipocrita che, implicitamente, tende a lasciare la situazione, nella società italiana, così com’è: le donne a sostituire i servizi sociali inesistenti, le case di riposo fatiscenti, gli sgravi fiscali ridicoli per l’assunzione di collaboratori domestici e baby sitter, la sanità inefficiente. Credo, invece, che la giusta soluzione sia rendere la scelta dell’età pensionabile elastica e libera, in un arco temporale che vada, orientativamente, dai sessanta ai settant’anni.
E prevedo che la conseguenza sarà la seguente: una percentuale molto maggiore di maschi lavoratori vorrà restare al proprio posto sino all’ultimo giorno possibile: per prestigio, per ambizione, per potere, per soldi, perché fuori si annoierebbe a morte. Prevedo, invece, un esodo molto più precoce delle donne. Anche qui, il perché è presto detto: una volta in pensione, le donne non si annoiano di certo: il secondo lavoro è sempre lì ad attenderle. Ma sarà arrivato, finalmente, il momento in cui potranno svolgere solo quello: una cosa alla volta, senza correre, senza affanno, senza sentirsi ogni giorno un po’ incompiute ed un po’ idiote, né così stanche da non aver più voglia di sorridere.
Certo, per l’altra soluzione, quella vera, sarebbe necessario ben altro cambiamento, ci vorrebbe ben altra strategia: una mutazione sociale e culturale di cui purtroppo s’intravedono solo i primi bagliori nelle coppie più giovani. Nell’attesa, consiglierò a mia figlia ed alle sue amiche adolescenti di accasarsi con uno dei figli del nostro ricco premier, com’egli stesso argutamente suggerì qualche tempo fa ad una giovane disoccupata; o di fare come le veline della tivù, che prima o poi trovano tutte un calciatore che le mantenga. Mica stupide come noi, quelle… .