RIFIUTARE I RIFUTI – Emanuela Frosina
Non è facile districare l’ingarbugliatissima matassa di inadempienze, paure, complicità, minacce e malaffare che hanno accompagnato la tristemente nota vicenda dei rifiuti campani.
Ancora una volta, alla ribalta internazionale, e per motivazioni non nobili, è il nostro Paese; ed ancora una volta, ciò che alla fine, dopo tante polemiche, articoli e dibattiti televisivi rimane è una profonda sensazione d’impotenza: la riflessione amara che lo Stato, in buona parte d’Italia, sia una parola astratta.
Le Istituzioni esistenti non sono state in grado di governare e di gestire, in almeno quattro Regioni, assolutamente nulla, neppure i cassonetti dell’immondizia e, in queste Regioni i cosiddetti cittadini italiani, oltre a dover combattere ogni giorno contro una malavita organizzata che disciplina minutamente ogni attività, non godono neppure dei più elementari diritti: andare a scuola, camminare per le strade senza dover respirare veleni, assicurare ai propri figli condizioni civili di vita. Un senso di sconforto pervade chiunque cerchi di comprendere: quando ti pare d’aver capito, ad esempio, che dietro le proteste, solo in parte spontanee, dei campani per la riapertura delle discariche ci sono gli interessi e le pressioni della camorra, che lucra sull’attuale emergenza, un giovane dimostrante intervistato, dichiara che, viceversa, le discariche fanno comodo solo alla camorra, che tramite il sistema delle società prestanome e dei subappalti, di fatto, le gestisce. Il Governatore ed il Sindaco dichiarano, invece, che la colpa è dei Vescovi e dei Verdi, che hanno bloccato sul nascere ogni concreta iniziativa.
Gli ambientalisti affermano che la causa di tutto è la mancata raccolta differenziata, dimenticando l’emergenza attuale, e non futura, costituita dalle tonnellate di rifiuti riversate per le strade. Non si sa come e perché il Commissariato appositamente costituito da una decina d’anni, pur avendo speso sino all’ultimo euro gli aiuti europei, non abbia attuato la costruzione del termovalorizzatore, peraltro osteggiato per i più svariati motivi da destra e sinistra, né sono stati chiariti i motivi per cui l’unica Società incaricata di raccogliere ed allestire le famose “ecoballe”, nonché di trasformarle, non sia stata obbligata ad adempiere a quanto contrattualmente stabilito. In Campania, nessuno risulta aver mai autorizzato l’uso di discariche abusive e non a norma ma le stesse operano indisturbate da anni senza alcun intervento di polizia, magistratura, uomini politici.
L’unica cosa certa è che sull’ignavia degli uni e degli altri ha prosperato la malavita organizzata, e che oggi occorre l’Esercito per fronteggiare centinaia di campani ormai “giustamente inferociti”. Tuttavia, al di là di tutte le implicazioni politiche ed economiche di questa triste vicenda italiana, ciò che colpisce e che induce ad una più profonda e generale riflessione sono proprio quelle montagne di plastica, mobilia, bottiglie rotte, scarti di cibo, scorie tossiche, che invadono le strade di una metropoli del 2008, in uno Stato occidentale considerato tra le prime sette potenze economiche del mondo. Quelle immagini devastanti, quei cumuli pestilenziali che hanno reso orribile una delle più belle città d’Europa, ci costringono a guardare in faccia al nostro futuro, ed al futuro dei nostri figli, per riflettere sul rapporto malato che le ultime generazioni hanno costruito con gli oggetti, a ciò indotte dalla società del cosiddetto benessere.
Un abito cucito a mano dal sarto, gli orologi meccanici, una sedia costruita dal falegname di fiducia, un letto matrimoniale, un orcio di terracotta per le conserve o le piante di casa, il corredo nuziale, le bottiglie del lattaio lasciate ogni giorno di fronte alla porta, le scarpe (un paio per la bella stagione, uno per quella brutta), le camicie da uomo, cui sostituire ogni tanto il colletto ed i polsini… antiquariato, ormai.
La società “dell’usa e getta” ci ha abituati agli abiti tutti tristemente uguali, agli orologini al quarzo, precisi ma bruttissimi, alle sedie scomode ed ai vasi di plastica in cui le piante danno segni di soffocamento, ai tetra pack in cui anche i migliori cibi perdono ogni sapore, alle scarpe di similpelle che durano un mese, ma che importa, l’importante è averne una ventina. Di camicie da uomo riutilizzate e di conserve fatte in casa, poi, neppure a parlarne, sono relegate in soffitta, così come le lenzuola ricamate a mano, una volta tramandate di madre in figlia e come i gioielli di famiglia, sostituiti da orribile e carissima bigiotteria in finto cuoio e acciaio senza gusto e senza valore, al di fuori di quello del marchio prestigioso e del battage pubblicitario che l’accompagna. L’umile oggetto quotidiano, destinato al lavoro o all’abbellimento della casa e della persona, veniva un tempo costruito con sapienza e con materiali fatti per durare, ed utilizzato con rispetto, per tutta la vita, o perlomeno finché era in grado di fornire i propri servigi all’uomo.
Tanto nella società contadina quanto in quella borghese, vigeva una regola fondamentale: gli oggetti servono all’uomo non viceversa. Oggi, tale sano e corretto rapporto con le cose si è capovolto: siamo tutti ingranaggi utili al sistema economico costituito dal mercato globale, e ci sembra d’esistere solo in quanto acquistiamo, consumiamo, sostituiamo rapidamente, sedotti dal nuovo oggetto dei nostri sogni.
Chi non è in grado di comprare e di buttare non esiste per la società dei consumi e la maggiore aspirazione di ciascuno è possedere sempre nuovi oggetti, magari a colpi di carta di credito. Mi colpì molto, alcuni anni fa, l’intervista rilasciata dal celebre Luciano Benetton, artefice dell’omonimo impero economico, che dichiarava candidamente d’averlo costruito sulla stupidità degli acquirenti, che si sentono, comunque, in obbligo di comprare ad ogni nuova stagione un suo capo, anche se hanno i cassetti stracolmi di capi ancora in ottimo stato.
Da qui nasce, in ultima analisi, Il problema mondiale del proliferare incontrollato e dello smaltimento dei rifiuti. Non a caso, nel continente africano una famiglia media produce in tre settimane quantità di rifiuti che una famiglia italiana riesce a produrre in un solo giorno. Laddove la penuria induce cautela e rispetto, i rifiuti sono pochissimi perché nulla si rifiuta. Cercando con un po’ d’attenzione nei cumuli di spazzatura di una delle nostre città si scoprirebbero dei veri e propri tesori: mobili, cibo, vestiti.
Chi è stato in Brasile, ricorda per tutta la vita, con vergogna, i bambini delle favelas che frugano con le mani nell’immondizia lasciata per le strade dai ricchi, in cerca del proprio pasto quotidiano. Il recupero di uno stile di vita più sobrio, più sano e, nuovamente, caratterizzato da una migliore qualità a discapito dell’abnorme quantità di roba che ci circonda, ci soffoca e ci rende, a nostra volta, cose – è la prima soluzione del problema, strettamente connessa al conseguente recupero, riciclo e riutilizzo intelligente degli oggetti e delle materie prime. Ma è urgente fermarsi subito, prima che gli spray inquinino, definitivamente, l’aria, prima che l’indistruttibile plastica riesca a soppiantare ogni altro materiale presente in natura, e naturalmente deteriorabile.
Gli economisti sostengono che solo una forte spinta ai consumi salverà l’economia. Mi permetto di chiedermi e di chiedere, a cosa servirà una florida economia ad una umanità nevrotica, devastata e destinata, in misura sempre maggiore, a tumori ed obesità. Perdere di vista l’uomo, sempre fine e mai mezzo, per dirla con Kant, sarebbe la più colossale svista della storia dell’umanità. UNA VERGOGNA NAZIONALE – Enzo Parentela
Lo scorso dicembre è stato funestato da un terribile incidente sul lavoro che è costato la vita a sette operai, morti a causa di un improvviso, quanto prevedibile, incendio. La tragedia è accaduta in una acciaieria di Torino, la Thyssen Krupp.
Ancora una volta le cronache hanno dovuto registrare la terribile morte di alcuni lavoratori sul luogo di lavoro. A questo caso, i media nazionali hanno dato notevole rilievo, fatto abbastanza insolito, se si pensa che in Italia, le vittime di incidenti sul lavoro sono tutt’altro che eccezionali, dato che, di continuo, si registrano infortuni e disgrazie, con una media nazionale stimata intorno ai 4 morti sul lavoro al giorno. L’insistenza con cui giornali e televisione hanno riproposto, per settimane, l’incidente della acciaieria Thyssen Krupp, potrebbe trarre origine da un senso di colpa collettivo, di fronte alla indifferenza che spesso accompagna simili eventi.
Quante volte leggiamo sulla cronaca di un giornale dell’operaio caduto dall’impalcatura, del manovale schiacciato dalla betoniera, del lavoratore perito per il crollo di un muro o come purtroppo è recentemente avvenuto a Porto Marghera, di due operai morti per asfissia nella stiva di una nave. Catalogati, dai più, come semplici eventi di cronaca, ne veniamo a conoscenza, senza nemmeno registrarli nella nostra memoria. Al cospetto di tali avvenimenti, spesso siamo osservatori neutrali e distratti e siamo portati a pensare che gli infortuni sul lavoro, siano solo la conseguenza di imperizia da parte di chi sta operando o magari la conseguenza di un destino tragico e amaro. Alla Thyssen Krupp, l’incendio è esploso violento ed improvviso e non ha dato scampo ai lavoratori.
Una tragedia, una fatalità, una disgrazia, certamente. Ma poteva essere evitata?
Molti media hanno posto l’accento sul problema della sicurezza sul lavoro e su come l’incidente di Torino sia potuto accadere.
Quando avvengono eventi così tragici e dolorosi che distruggono vite umane e sconvolgono l’esistenza di intere famiglie è un dovere chiedersi il perché. Il nostro Paese è dotato di una legislazione tra le più avanzate in tema di sicurezza sul lavoro.
La Legge 626/94, recentemente arricchita dalla Legge 3 agosto 2007 numero 123, detta regole precise e molto rigide in tema di sicurezza sul lavoro. Basterebbe che nelle Aziende si rispettasse, anche in parte, quanto stabilito dalla normativa, per scongiurare buona parte degli infortuni sul lavoro. Dai primi riscontri, infatti, e dalle testimonianze dei lavoratori sopravvissuti alla tragedia di Torino sembrerebbe che gli estintori fossero scarichi e i tubi di erogazione degli idranti antincendio addirittura forati.
La competizione tra le imprese, la necessità di aumentare i ritmi della produzione, la concorrenza con Aziende che producono in Paesi esteri dove le regole non esistono affatto, inducono, talvolta, le Aziende a sacrificare, per contenere i costi, le esigenze di sicurezza ritenute superflue ai fini del ciclo produttivo. È giusto che ci siano Aziende, operanti in Italia, che per risparmiare sui costi non osservino le norme di sicurezza? La risposta è negli oltre mille morti sul lavoro in Italia, nel 2007, che insieme a qualche centinaio di migliaio di infortuni e di invalidità permanenti, dimostrano quanto siano urgenti controlli più diffusi e severi sull’effettiva l’applicazione delle norme di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Nessuna normativa può essere ritenuta valida ed efficace se, nei fatti, rimane poi non attuata. Visto che il nostro Paese è dotato di una legislazione moderna e in linea con gli standard europei in tema di sicurezza sul lavoro è tempo che, a distanza di quasi quindici anni dal varo della 626, si pensi, seriamente, a renderla operativa nella pratica e non soltanto in teoria, magari con un sostegno economico alle imprese che investono in sicurezza ma anche con una forte e decisa azione di monitoraggio sui differenti tipi di contratti di lavoro, sull’emersione del sommerso, con gravi sanzioni per il lavoro in nero e senza garanzie (tra le quali una formazione minima) per meglio sostenere le responsabilità del lavoratore, rispettare il suo impegno e non vanificarlo, arginando così l’emorragia di morti bianche (definizione encomiabile, tanto elusiva quanto drammatica). Credere che non investire più fondi sulla sicurezza possa quantificarsi in un sensibile risparmio deve essere considerato un’azione delinquenziale. Demandare, deliberatamente, alle Assicurazioni i costi di assistenza sanitaria e di spesa di sostegno alle famiglie da parte delle Aziende deve essere considerata una strategia economica di rilevanza penale. Anche perché, le stesse Aziende – in Germania, per esempio, – si comportano in modo totalmente diverso, investendo copiosamente sulla sicurezza, incalzati da meticolosi controlli, seguiti da pesantissime sanzioni in caso di inadempienze.
Non è più rinviabile, nel nostro Paese, l’esigenza di garantire un lavoro sicuro, dignitoso e basato su criteri di equità. Quegli oltre mille morti sul lavoro, del 2007, non sono solo un lutto nazionale, sono anche una vergogna nazionale.