PORTE CHIUSE AI TRENTENNI
Nino Lentini
Sembra proprio che a trenta anni si sia già vecchi.
Non certo per l’aspetto esteriore o per le capacità intellettive ma alla presentazione di una domanda di assunzione – almeno nell’ambiente creditizio – trenta anni sono considerati un impedimento. Un disoccupato, uomo o donna che sia, pur avendo un titolo di studio conseguito con buoni risultati, più che adeguati a soddisfare le richieste professionali delle diverse Aziende, se ha varcato la fatidica soglia dei “trenta” non è più “selezionabile”… a scapito – a volte – anche delle migliori referenze. Eppure, dal momento in cui è stato conseguito il titolo di studio idoneo – con le difficoltà che tale percorso formativo richiede – ogni giovane cerca di trovare un posto di lavoro stabile, duraturo e in linea – perché no – con le sue esperienze ed aspettative, riuscendo, invece, ad inserirsi, solamente, in qualche attività saltuaria, scarsamente retribuita e spesso poco qualificata. E così, di saltuario in saltuario, passano le stagioni, passano gli anni e quando finalmente capita “la grande occasione” o, semplicemente, “il posto migliore” ecco che si trova “fuori” solo perché ha raggiunto la “veneranda” età di trent’anni! Ma l’età media non è aumentata? Chi lavora, ormai, pensa di andare in pensione all’età di Matusalemme (e come combattono la disoccupazione? Mantenendo in servizio per più tempo coloro che già lavorano!), aumentano l’età per l’accesso alle prestazioni gratuite del sistema sanitario, tutto si adegua e solo l’età per le assunzioni si abbassa… fra un po’ assumeranno direttamente dalle scuole medie! La Legge 30 (più conosciuta come Legge Biagi) non doveva servire ad agevolare l’ingresso nel mondo del lavoro? Di precario in precario si invecchia (si sa, il tempo passa per tutti!) ed ecco arrivare i trent’anni e la mannaia della frase “sei vecchio per selezionarti”. Tutto ciò non può lasciare indifferenti. Ci deve spingere a soffermarci e meditare con più attenzione su quanto succede nel mondo del lavoro, nonché sulle attività del Governo direttamente connesse all’occupazione. La stessa globalizzazione, che ha interessato l’intero mondo del lavoro, avrebbe dovuto contribuire a risolvere tale problema invece lo ha peggiorato. Attraverso una migliore collocazione delle risorse si sarebbero dovute ottimizzare le performance aziendali, per ricercare nuove prospettive di crescita sia per le Aziende – che lamentavano la crisi della domanda dei cosiddetti “mercati tradizionali” – che per i lavoratori, con il mantenimento, su base stabile, dei livelli occupazionali preesistenti e nuove prospettive per i disoccupati. Nei fatti, assistiamo alla realizzazione di una sola prerogativa.
Le Aziende, grazie soprattutto al grande sacrificio dei lavoratori, hanno superato brillantemente il periodo di crisi, tant’è che i bilanci delle Aziende presentano, oggi, sempre ROE a due cifre. Di contro, i livelli occupazionali si sono abbassati in modo preoccupante ed i nuovi lavori stabili sono diventati, quasi, un miraggio. Ci troviamo, purtroppo, ancora oggi, di fronte agli interrogativi irrisolti. Interrogativi ai quali è necessario dare una risposta, finalmente, risolutiva. Non dimentichiamo, poi, che al lavoro ed alla stabilità dell’impiego sono legati fattori demografici di primaria importanza, come la possibilità di mettere al mondo dei figli, di crearsi un nucleo familiare autonomo ed altro ancora. Senza tralasciare che al lavoro ed alla possibilità di produrre redditi sono legati direttamente i consumi. Si spende se si ha un reddito dal quale attingere, naturalmente, e, soprattutto, in misura consequenziale. Come si può pensare – nel lungo periodo – di mantenere o far crescere i livelli dei consumi se si comprimono i redditi. O qualcuno crede che solo quei pochi fortunati che guadagnano cifre spropositate possano, da soli, far fronte all’intera offerta del mercato? Compito di tutti i cittadini è quello di pressare la classe politica e dirigente per modificare le inique leggi dell’odierno mercato del lavoro nel nostro Paese. La realtà è che oggi chi si affaccia nel mondo del lavoro “stabile”, normalmente, non riesce ad avere meno di trent’anni.
Un’età che, certamente, dispone di tutte le potenzialità per dare il massimo contributo in ogni genere di attività. Il lavoro è un diritto e non un bene e, in quanto tale, non può essere negato, ancora meno ai trentenni.