Lo scorso 14 novembre è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la sentenza n°194 con cui, il 26 settembre, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo 3, comma 1, del “contratto a tutele crescenti” introdotto D.Lgs. n° 23/2015 – in attuazione della Legge Delega n° 183/2014 (nota come Jobs Act) – sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. n° 87/2018 (cosiddetto “decreto dignità”), che si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell’indennità.
Ricordando che oggetto del quesito costituzionale non era la previsione o meno del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in tutti i casi di licenziamento riconosciuti come illegittimi dal giudice, bensì la modalità di determinazione dell’indennità, sintetizziamo di seguito i principi stabiliti dal giudice costituzionale.
È incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato – ancorato solo all’anzianità di servizio – previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 e confermato dal cosiddetto “decreto dignità” del 2018.
Secondo la Corte Costituzionale, il meccanismo di quantificazione consistente in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, rende l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dal licenziamento ingiusto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Con questa pronuncia, il giudice, nell’esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (inizialmente 4, a seguito del decreto dignità 6 mensilità) e massimo (inizialmente 24, ora 36 mensilità), dell’indennità, dovrà tener conto non solo dell’anzianità di servizio – criterio che ispira la riforma del 2015 – ma anche degli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.
La norma censurata contrasta anzitutto con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Secondo la sentenza, l’esperienza mostra che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori di cui l’anzianità di servizio è solo uno dei tanti, e che questa pluralità è stata sempre valorizzata dal legislatore.
La tutela risarcitoria prevista dal legislatore, invece, lega l’indennità all’unico parametro dell’anzianità di servizio.
Con una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti, si viene meno all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, anch’essa imposta dal principio di eguaglianza.
La disciplina normativa oggetto della sentenza, inoltre, contrasta anche con il principio di ragionevolezza, in quanto l’indennità non è idonea a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
Il fatto che l’aumento dell’indennità dipenda solo dalla crescita dell’anzianità di servizio, secondo il giudice, mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata. La norma non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro.
Dall’irragionevolezza dell’ articolo 3, comma 1, del d. lgs . n. 23/2015 discende anche il vulnus recato agli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione. La Corte afferma: “Il forte coinvolgimento della persona umana (…) qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”.
La disposizione censurata viola, infine, gli articoli 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 24 della Carta sociale europea, secondo cui, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.