IL LAVORATORE CHE REGISTRA LE CONVERSAZIONI CON I COLLEGHI AL FINE DI TUTELARSI NON PUO’ ESSERE LICENZIATO
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la Sentenza n. 11322 pubblicata il 10 maggio 2018, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del Lavoratore che ha registrato conversazioni con i colleghi, senza informarli, al fine di tutelare la propria persona sul posto di lavoro.
Nel caso di specie, una Società aveva disposto il licenziamento per giustificato motivo soggettivo nei confronti di un Dipendente che, in sede di precedente procedimento disciplinare, utilizzava a propria difesa delle registrazioni di conversazioni avute con diversi colleghi, ignari di essere registrati.
Il Dipendente veniva licenziato per aver violato la privacy dei colleghi sul posto di lavoro.
A seguito di ricorso del Lavoratore licenziato, il Giudice di primo grado si esprimeva per la legittimità del licenziamento.
Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello concludeva invece per l’illegittimità del licenziamento, ritenendolo sproporzionato rispetto ai fatti contestati e condannava il Datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria.
Successivamente, il Lavoratore presentava ricorso presso la Corte di Cassazione per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro.
Nell’esaminare il caso, la Corte di Cassazione ha stabilito che le registrazioni effettuate dal Lavoratore non costituivano violazione del diritto alla privacy poiché erano volte a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria e che, pertanto, poteva ritenersi non operante il divieto secondo cui, per l’utilizzo di tali materiali, era necessario il consenso dei soggetti oggetto delle registrazioni.
I Supremi Giudici hanno, quindi, accolto il ricorso del Lavoratore e nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento hanno, tra l’altro, precisato che: “l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dall’art. 1, comma 42, della Legge n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità”.
Ha concluso, poi, la Suprema Corte che “la condotta legittima del Lavoratore non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del Dipendente di adempiere in modo puntuale l’obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta”.