Secondo un orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza il cosiddetto “scarso rendimento” è considerato una forma grave di inosservanza degli obblighi contrattuali del lavoratore e pertanto può determinare la risoluzione del rapporto di lavoro per inadempimento.
Tale orientamento ha trovato una ulteriore conferma in una recente sentenza della Corte di Cassazione (ordinanza n.10640 del 19.4.2024).
La Corte nel respingere il ricorso di un lavoratore, che era stato licenziato, mette in evidenza il fatto che nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato prefissato, ma alla messa a disposizione del datore di tutte le proprie competenze, conoscenze, energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato stabilito, non costituisce di per sé inadempimento, dato che si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera, un servizio o la realizzazione/compimento di un progetto (tipico del lavoro autonomo).
Ove, tuttavia, siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza, accortezza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore e delle declaratorie previste dai vari CCNL, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione lavorativa; in tal caso lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore (Cass. civ. n. 16472 del 2015; Cass. civ. n. 17436 del 2015).
La Corte pone l’accento sulle ragioni che possono essere causa di licenziamento e vanno adeguatamente valutate, sul piano soggettivo e su quello oggettivo.
– Nel primo caso bisogna che la causa di licenziamento sia correlata alla sfera volitiva del dipendente, quando cioè deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo. In altri termini il licenziamento deve essere fondato su di un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore e lesivo dei suoi doveri contrattuali ed esprime pertanto un giudizio negativo nei suoi confronti.
– Le ragioni oggettive invece sono da ricercarsi in quelle situazioni che contrastano con l’organizzazione aziendale. Queste possono ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore (Cass. civ. n. 12072 del 2015) quali la sopravvenuta inidoneità alla mansione per infermità fisica, la carcerazione (Cass. civ. n. 12721 del 2009), il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative (Cass. civ. n. 603 del 1996; Cass. civ. n. 6362 del 2000; Cass. civ. n. 13986 del 2000), la mancanza del titolo professionale abilitante (Cass. civ. n. 25073 del 2013), ma sempre che si tratti di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita d’interesse del datore di lavoro alla prestazione e che siano estranee alla sfera volitiva del soggetto, tali da non poter configurare, nella sostanza, un inadempimento imputabile.
La Corte ha inoltre sottolineato che la sussistenza della fattispecie concreta nell’una piuttosto che nell’altra ipotesi normativa non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, ma l’azienda dovrà dimostrare che da parte del lavoratore ci sia un grave inadempimento dei propri obblighi contrattuali.