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Il Dipendente per provare di aver subito una discriminazione
non
deve obbligatoriamente presentare dati di
carattere statistico in sede giudiziale. Questo principio è stato sancito dalla Corte di Cassazione con la Sentenza
n. 15435/16 emessa il 26 luglio 2016.
Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, la Dipendente (una Lavoratrice madre) ha ritenuto che il
trasferimento disposto dall’Azienda presso un punto vendita distante 150 km dalla precedente sede di lavoro
fosse connotato da un chiaro intento discriminatorio, essendo stato disposto dopo solo tre giorni
dall’inoperatività del divieto previsto dall’articolo 56 del D.lgs n. 151/2001 (che perdura dodici mesi dalla
nascita del figlio) e in assenza di reali ragioni di carattere tecnico, produttivo e organizzativo. A fronte del rifiuto
opposto dalla Lavoratrice a prendere servizio presso la nuova sede, la società ha proceduto al licenziamento per
giusta causa.
La Corte di Cassazione ha dichiarato la nullità del trasferimento e del licenziamento, confermando la precedente
pronuncia della Corte d’appello che – in modo del tutto logico e coerente – ha accertato come gli elementi
fattuali emersi in giudizio fossero «idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di atti, patti
o comportamenti discriminatori», con la conseguenza che, secondo le previsioni contenute all’articolo 40 del
D.lgs n. 198/2006, sarebbe spettato al Datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione. In pratica,
il mancato assolvimento di tale onere probatorio gravante sull’Azienda ha, dunque, comportato l’accoglimento
del ricorso presentato dalla Lavoratrice.
A tal proposito, la Corte di Cassazione ha colto l’occasione per riprendere i principi fondamentali riguardanti
l’onere della prova in tema di discriminazioni introdotto dall’articolo 40 del D.lgs n. 198/2006.
Per la Suprema
Corte, infatti, l’adempimento dell’onere probatorio “attenuato” posto a carico del Dipendente non deve
necessariamente o esclusivamente concretizzarsi nella produzione di dati di carattere statistico, in quanto
la norma – chiara nella sua formulazione – risulta diretta a facilitare l’emersione della condotta illecita
attraverso elementi fattuali, non necessariamente di carattere statistico, idonei a fondare, in termini
precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza del comportamento discriminatorio.