La terminologia “pressioni commerciali” sta caratterizzando in questi ultimi anni il mondo del lavoro in quei settori di produzione che sfociano direttamente nella vendita al pubblico di beni o servizi. Nel settore del credito, in particolare, sta addirittura dilagando sia in termini quantitativi che qualitativi finendo per caratterizzarsi con accezioni assolutamente negative sia nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori sia nei confronti della clientela.
Tale proliferare, peraltro, appare del tutto in controtendenza rispetto al quasi proporzionale aumento di norme legislative, direttive europee, orientamenti istituzionali, prese di posizione di giuslavoristi, fautori della CSR (Corporate Social Responsibility), esperti del mondo sanitario e scientifico, economisti, associazioni di consumatori che si esprimono esattamente nel senso opposto, esemplificando in modo ufficiale ed autorevole le nefaste conseguenze di un tale modus operandi.
Ma tant’è. Le banche continuano per la loro strada al punto che si può tranquillamente affermare che tutta l’organizzazione attuale del lavoro è finalizzata ad esercitare pressione alla vendita sul lavoratore.
Si stilano graduatorie individuali sui prodotti venduti, si contabilizzano i minuti dedicati alle varie tipologie di clienti, i chilometri percorsi nella vendita porta a porta rapportati al tempo impiegato, si convocano apposite riunioni – rigorosamente fuori dall’orario di lavoro – per enunciare pubblicamente le classifiche individuali di vendita dove gli ultimi, i “cattivi”, vengono additati quali responsabili nei confronti di tutti i colleghi del mancato raggiungimento del mitico budget, ormai unica porta di accesso ad una qualche forma di aumento retributivo seppure misera e precaria. Poi, oltre alle full immersion di carattere collettivo ci sono i colloqui individuali dei vari preposti, a loro volta destinatari di processi sommari in linea gerarchica, che si spingono in minacce più o meno velate sulle sorti future del malcapitato dipendente che vanno dal trasferimento in terre lontane alla perdita del posto di lavoro, alle offese sic et sempliciter. L’ossessività di queste inquisizioni talvolta prosegue anche fuori dall’ambiente di lavoro con telefonate nel week-end e ad orari spesso improbabili.
Non va, poi, sottovalutato anche la perversa conseguenza di siffatti comportamenti. Quanti errori, distrazioni, leggerezze – che, in qualche caso, diventano motivo di azioni disciplinari che si concludono con l’irrogazione della massima pena prevista dal contratto (licenziamento) – sono diretta conseguenza di tali pressioni? Come si può rispettare e seguire pedissequamente le innumerevoli normative – interne ed esterne – quando si è sottoposti a continui “solleciti” da parte dei propri responsabili?