ANCORA A PROPOSITO DI LEGGE 194 Emanuela Frosina
Due cose in premessa, e tanto per chiarire subito le idee: non credo affatto che l’aborto sia un diritto di cui andare fiere, e sono assolutamente convinta che non sia un metodo anticoncezionale. Ciò premesso – poiché anche le questioni che dovrebbe essere scontate, nell’Italia di oggi, non lo sono più – il terzo punto, fondamentale, è che la Legge 194 non c’entra nulla con le due affermazioni in premessa, e che, pertanto, partire da quelle premesse per criticarla o riscriverla è evidentemente pretestuoso. Basta, infatti, rileggere, senza pregiudizi, il testo della Legge, per aver conferma del fatto che mai una Legge ha reso eticamente accettabile l’inaccettabile; che la Legge non incentiva, per nulla, il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza; che molto più semplicemente, con tale Legge, da trent’anni tutti noi italiani abbiamo smesso di girarci dall’altra parte, di fronte alla cruda realtà dell’aborto; da soli trent’anni la collettività ed il sistema sanitario italiani hanno deciso di prendere atto che troppe donne, da sempre, non trovano un modo meno cruento ed orribile per sfuggire al destino iscritto dalla natura e dagli uomini sul proprio corpo; di prenderne atto e di farsi carico del problema. Non è stata certo la 194 a creare il rifiuto della maternità, così come non è stata la legge sul divorzio a creare i fallimenti matrimoniali; e come non sarà il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto ad originare la costituzione di tali coppie. Le leggi prendono atto, per “consuetudine”, con forte ritardo, dei fenomeni sociali e, se ben fatte, li inquadrano e li disciplinano. Non è compito della legge l’educazione sentimentale o sessuale; e non è compito dello Stato distribuire patenti di moralità ai cittadini. Ciò premesso e condiviso, e solo ciò premesso e condiviso, è possibile discutere di tutto il resto: dell’immaturità dei rapporti prematrimoniali, della solitudine in cui, a volte, si decide un aborto evitabile; del rifiuto totale e sempre più diffuso di ogni handicap fisico, della scarsità di aiuti materiali e psicologici alla maternità, dello scarso o nullo coinvolgimento del partner di sesso maschile nella decisione cruciale.
Ogni legge è migliorabile, ovviamente.
Il problema nasce quando, sotto i buoni propositi manifesti, serpeggiano, con evidenza, rigurgiti di integralismo ideologico e il desiderio di reazione culturale. Una donna può accettare e comprendere che la propria decisione di abortire venga sondata nella sua irrevocabilità; può subordinarla ad approfonditi colloqui ed al preventivo ascolto delle ragioni del partner – se è presente; può persino accettare di essere messa in crisi nelle proprie fragilità e nelle proprie convinzioni.
Ma non può accettare che la propria autonomia di pensiero e di coscienza venga messa in forse; non può accettare l’arroganza ideologica che pretende di applicare la norma (religiosa o semplicemente etica) sulla sua pelle, ma senza il suo consenso; non può accettare che altri ( chiunque altro, sia esso un camice bianco, un maschio della famiglia o un prelato) detengano il potere di stabilire che il feto malato, all’interno del suo ventre, debba, comunque, nascere; che il frutto della violenza sessuale, dentro o fuori il matrimonio, debba avere vita; che il figlio di un rapporto occasionale ed insignificante, con un uomo sbagliato, possa provocare un trauma psicologico permanente, che danneggi anche la salute fisica della stessa donna. Una donna non può accettare tutto questo, perché ciò significherebbe riconsegnare la sua vita e le scelte più importanti di un’esistenza, a qualcun altro che non sia la propria coscienza dolorante. Si tratta di scelte di vita con implicazioni umanamente drammatiche, che lasciano ferite indelebili nell’inconscio femminile e, proprio per questo, andrebbero discusse con il massimo riguardo per le donne che decidono di compierle.
La maternità non può tornare ad essere una maledizione biblica, un destino ineluttabile anche quando viene vissuto e sentito come insopportabile, o come un carico che non si è pronte a portare. La maternità è oggi una scelta consapevole, un desiderio ostinato e caparbio, oppure un accadimento inatteso, ma, tuttavia accettato e voluto. Si diventa madri prima con la testa e col cuore, e solo successivamente con l’utero. Non si può ricondurre in catene un intero genere umano, in nome del diritto alla vita del concepito: perché non esiste figlio, se non c’è una vera madre a desiderarlo davvero, come dimostrano le tante tragedie familiari, che recentemente hanno visto protagonisti – ed ugualmente vittime – madri impreparate e, talvolta, anche assassine, e figli incolpevoli ed uccisi, non da feti, ma da bambini apparentemente amati. Ecco che, allora, diventa inutile e disgustoso l’accanimento su una Legge che ha consentito di ricondurre a percentuali trascurabili la mortalità e le complicanze da aborto; che ha contribuito, negli anni, a ridurre drasticamente il numero degli aborti tra le italiane; che consente oggi a migliaia di immigrate d’abortire in modo meno disumano di quanto avverrebbe in assenza della Legge194. Non è certo stravolgendo o abolendo la Legge che si stroncherà “la strage silenziosa”. Per ottenere tale auspicabilissimo obiettivo, occorrerebbero una capillare prevenzione, una maggiore responsabilizzazione dei giovani – e meno giovani – maschi italiani nel rapporto sessuale, la distribuzione gratuita di preservativi e anticoncezionali alle coppie giovanissime e alle immigrate, una corretta informazione anche nei licei, tanta ipocrisia in meno.
Ma dubito fortemente che i nuovi crociati, difensori della “vita” in astratto, ma non delle nostre piccole miserabili vite, approverebbero un simile programma: perché l’integralismo è un veleno sottile, che tutto pervade ed impedisce di vedere le soluzioni semplici, in nome di “principi” così elevati, da risultare impraticabili. E, poi, dove la mettiamo la soddisfazione di ristabilire controllo e potere sull’operato femminile da parte degli uomini, di molti uomini, di certo? Chi ricorda la battaglia del 1980, in Italia, per il Referendum sulla Legge194, non può dimenticare la lotta, senza esclusione di colpi, che hanno dovuto sostenere le donne, sotto continua minaccia di scomunica da parte del Vaticano, per il solo sostegno alle ragioni del Referendum. Sorge prepotente, più che il dubbio, la convinzione che dietro tanti bei discorsi si celi in realtà, nuovamente, la voglia di gestire da parte degli uomini, il corpo della donna, le sue libertà civili, ed infine, la società nel suo insieme. Soprattutto quando la discussione sull’aborto ritorna all’interno di schieramenti e frange che non perdono occasione alcuna per insistere, con sospetto accanimento sui temi della sessualità, della fecondazione, della famiglia, ma sempre e soltanto in un’ottica pre-conciliare, pre-sessantotto, pre – conquiste sociali femminili. E dimenticano, puntualmente, di invocare simili moratorie contro le stragi quotidiane, altrettanto inaccettabili, determinate dalle guerre e dal nuovo colonialismo. Desta più che fondato sospetto e sfiducia chi predica il sostegno morale alle ragazze madri e poi invia, ad una donna sola, sette poliziotti, col compito di sottoporla ad interrogatorio, subito dopo un’interruzione di gravidanza, ancora in ospedale. Mi domando, infine, cosa significherebbe, in pratica, la sbandierata “moratoria sull’aborto”, qualora venisse applicata, in concreto. I medici e gli infermieri dovrebbero rimandare a casa per un periodo di qualche mese – o di anni – chi vuole abortire? Le donne non avrebbero altra scelta che emigrare all’estero, come negli anni cinquanta, sessanta e settanta, o quella di tornare agli infusi di prezzemolo e al ferro da calza? O si tratta solo di trovate propagandistiche e certamente poco serie, da parte di chi è in cerca di facile pubblicità a buon mercato? La pelle e il corpo delle donne non sono in vendita. In mancanza di una seria educazione al sesso e ai sentimenti, sarà sempre la donna a prendere, da sola, la decisione ultima: che almeno le si tributi il rispetto che merita.