“WARGAMES ”: A VOLTE RITORNANO…
Vincenzo Solferino
Era il 1983 quando ci appassionavano film come Wargames (Giochi di guerra), spettacolari interpretazioni in cui si narrava – lo ricorderete – la rocambolesca storia di un quindicenne americano appassionato di informatica che, per gioco, scopre il modo di connettersi al cervellone preposto alla difesa tattica degli Stati Uniti. Scatenerà, così, anche se involontariamente, una escalation di incidenti che porteranno le potenze mondiali ai prodromi di un conflitto nucleare. Improbabile il tentativo da parte di sceneggiatori e produttori di sconfinare in un thriller mozzafiato, benché la morale risultante dalla trama fosse intrisa da un anelito di sano pacifismo.
Nello stesso anno, il 1983, uscì un altro film, meno brillante ma certo più tragico, The day after (il giorno dopo). La trama del film, risparmiando agli spettatori i retroscena di carattere politico/militare, descriveva con crudezza e dovizia di particolari il terribile “dopo” dell’immane tragedia seguita allo scoppio di una guerra termonucleare.
L’eco nell’opinione pubblica fu inaspettatamente eccezionale. Ci fu anche chi scrisse canzoni sul tema della guerra nucleare: ne ricordo una il cui curioso titolo era “Il giorno prima”. Rammento un videogioco di strategia militare, “Nuclear War”: lo scopo del gioco – com’è intuibile – consisteva nell’infliggere ai nemici il maggior numero di sconfitte. Il ricorso a simpatici espedienti comici (il Presidente Reagan, ad esempio, era stato ribattezzato “Raygun”) e l’uso di una grafica soft aiutavano a sdrammatizzare la pesantezza del tema. Ovviamente, il gioco si concludeva con la proclamazione del vincitore che veniva ritratto esultante su un cumulo di macerie.
Proprio in quegli anni, a cavallo tra il ‘70 e l’80, si faceva strada la coscienza pacifista/antimilitarista, e non era solo un problema di “moda” o di tendenze moralizzanti. L’opinione pubblica rigettava, senza mezzi termini, la sola eventualità che il mondo potesse arrivare al fatidico “giorno prima”, al punto, cioè, in cui un numero ristretto di uomini avrebbe deciso cosa fare di noi e della nostra discendenza, prima di andarsi a rifugiare nel loro esilio di calcestruzzo a diversi metri sottoterra.
La storia recente, dal secondo dopoguerra in poi, ha fatto vivere all’umanità momenti di forte trepidazione. La “guerra fredda” fra USA e URSS aveva già portato il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare (si pensi alla crisi dei missili di Cuba del 1962).
I grossi arsenali di armi di “distruzione di massa” erano in mano a due sole Potenze mondiali, che hanno continuato a collezionare armamenti sempre più sofisticati e micidiali. Ordigni mortali disseminati ovunque grazie allo strumento delle alleanze.
Il prof. Antonino Zichichi, in quegli anni mobilitato nella divulgazione scientifica, affermò che il potenziale distruttivo degli ordigni nucleari prodotti fino a quel momento era paragonabile a diversi quintali di tritolo per ogni abitante della Terra.
Solo l’implosione del sistema sovietico della fine degli anni ottanta ha consentito la formulazione di trattati per il graduale disarmo. Basti citare il trattato INF (1987) per lo smantellamento dei missili a media e lunga gittata situati sul suolo europeo nei paesi del Patto di Varsavia e della Nato e la non proliferazione degli armamenti nucleari – che sancì l’avvio della fine della guerra fredda – ed al Cfe (1990), il trattato sulla graduale riduzione di forze convenzionali (carri armati, artiglieria, mezzi blindati, elicotteri di attacco e aerei da combattimento).
Benché avessimo ormai riposto nei libri di storia episodi come il braccio di ferro fra Kennedy e Kruscev, ci siamo dovuti abituare all’avvento di altri drammi, non meno inquietanti: la “guerra preventiva”, le “bombe intelligenti”, il terrorismo di matrice islamica, le “prove tecniche di lancio” dei missili nord coreani, solo per citarne alcuni.
Cosa dire, poi, dei rifugi antiatomici? Sembrava che ogni uomo della Terra non potesse farne a meno; ora sono siti di “archeologia” della guerra fredda, reliquie di quelle paure che solo la rapidità con cui metabolizziamo gli eventi e le emozioni ci possono far dimenticare.
Cosa ne è stato della Glasnost di Gorbaciov, della caduta del muro di Berlino, dello smembramento dell’URSS e del Patto di Varsavia? La Russia di oggi, che cavalca il sentimento nazionalista sopito dagli anni del declino dell’URSS, ha un tasso di crescita vertiginoso e, come tutti i Paesi emergenti, presenta forti contraddizioni interne. È forte il suo predominio quale maggiore produttore di gas naturale e tiene in scacco la vicina Comunità europea.
Il paladino di questo rinnovamento è Vladimir Putin che ha preso le redini di una Russia prostrata dai grossi problemi economici e sociali del post-comunismo.
In questa opera, certamente di grande astuzia, è riuscito nell’intento anche grazie alla sua non sempre “ortodossa” linea d’azione: la repressione intrapresa contro i separatisti ceceni, ad esempio, o il trattamento riservato al ‘vecchio amico’ Litvinenko (ex colonnello KGB) a base di Polonio 210 – della cui morte viene accusato come mandante; non di meno, il presunto coinvolgimento nella morte della giornalista moscovita Anna Politkovskaja.
Eppure, per rafforzare il crescente sentimento nazionalista, Putin ha sospeso il Trattato sulle forze convenzionali in Europa, contrapponendosi allo sviluppo promosso da USA e paesi Nato in favore del cosiddetto Scudo Spaziale. Anzi, Putin ha annunciato al suo elettorato ed al mondo intero (Bush compreso) di voler intraprendere la costruzione di una nuova generazione di missili balistici intercontinentali così da poter rispondere prontamente ad eventuali minacce.
Minacce che per il nuovo “Zar” di Russia forse non provengono soltanto da quel vecchio nemico della guerra fredda; c’è, infatti, un altro ‘osso duro’ che da tempo fa parlare di sé nella cronaca mondiale. Si tratta di quell’iraniano, Mahmud Ahmadinejad, che sta producendo uranio arricchito, apparentemente per motivi pacifici, ma che non nasconde di voler ridisegnare le carte geopolitiche del Medio Oriente.Tutto ciò, peraltro, alimenta gli incubi dell’inquilino della Casa Bianca che desidererebbe dall’ONU una presa di posizione più decisa nei confronti dell’Iran e, perché no, fare una breve scampagnata nella terra degli Ayatollah con i suoi militari, stanchi del solito Iraq.Sindrome che da incubo si concretizza in vera e propria crisi di panico quando Putin e Ahmadinejad si salutano affacciandosi a quel cortile in comune che si chiama Mar Caspio.
Niente di meglio per Putin che andare a fare due chiacchiere con il collega iraniano! Strette di mano vigorose ed alleanze strategiche in tasca, fra cui accordi internazionali per l’esportazione del gas naturale (l’unica minaccia per la Russia monopolista è l’Iran) ai quali lo “Zar” ricambia con il veto all’uso della forza contro gli Ayatollah ed una costante attività di mediazione con la comunità internazionale che, invece, dovrebbe attenuare le sanzioni contro Teheran.Improvvisamente, la CIA estrae dal cilindro un rapporto rassicurante sullo sviluppo dell’atomica in Iran: niente bombe ma soltanto produzione di energia. Cosa ne sarà dei proclami del Presidente Ahmadinejad, della boria del Presidente Putin e della partita di Risiko del capriccioso Presidente Bush, andata deserta? Per noi, gente comune, spettatori inermi dei giochi dei potenti, si agitano, ancora una volta, quelle vecchie paure sul conflitto nucleare globale.
E con esse ritorna il peso inequivocabile delle parole di Albert Einstein: «Non so con quali armi verrà combattuta la Terza guerra mondiale ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre».