Con la sentenza n. 12174 dell’8 maggio 2019, la Corte di Cassazione ha inferto l’ennesimo colpo al Jobs Act, in questo caso nella parte relativa all’istituto della reintegra, intervenendo sul concetto di “fatto materiale”.
È tuttavia necessario procedere con ordine e cominciare con l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla c.d. Legge Fornero (L. 92/2012).
Ebbene, come noto, la legge in questione intervenne duramente sull’art. 18 della legge n. 300 del 1970 e ridimensionò di molto l’istituto della reintegra rispetto alla previgente normativa.
Ancora una volta ricordiamo che per UNISIN esiste un solo ed unico rimedio al licenziamento illegittimo (definito tale evidentemente da un giudice): la reintegra, ossia la possibilità per il lavoratore ingiustamente allontanato dal posto di lavoro di tornarvi.
La legge n. 92 del 2012 ha riservato il diritto alla reintegra solo ad un numero limitato di casi (per ulteriori approfondimenti, consulta la circolare dell’UFFICIO STUDI UNISIN realizzata sull’argomento: clicca qui).
In particolare, occorre qui ricordare che il nuovo testo dell’articolo 18 prevede che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato (…), annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro”.
A partire dall’entrata in vigore del nuovo testo, si è creato un vivace dibattito attorno al concetto di “fatto”.
In effetti, dalla lettura del testo, emergerebbe che il lavoratore non goda della reintegra in caso in cui il licenziamento illegittimo sia basato su un fatto sussistente: dalla lettura si deduce che la reintegra operi nel solo caso di insussistenza del fatto.
Banalizziamo e ragioniamo per paradossi: se un lavoratore urtasse un bicchiere d’acqua e, in ragione di ciò, venisse punito con un licenziamento (successivamente accertato come illegittimo dal giudice), avrebbe diritto alla reintegra oppure al solo indennizzo?
Dalla lettura del testo della legge, considerando che il bicchiere in effetti è stato urtato, si dovrebbe dedurre che il lavoratore non avrebbe diritto alla reintegra: il fatto sussiste.
Ebbene la magistratura ha fortunatamente smontato questa lettura (v. ad es. Cass. 18418/2016, tra le più recenti, ma anche Cass. 20540/2015), a nostro avviso invece ambita dal legislatore (come successivamente confermato), introducendo la fondamentale distinzione tra fatto materiale e fatto giuridico.
In estrema sintesi:
– Il fatto materiale è evidentemente il fatto in sé: il bicchiere cade oppure no.
– Il fatto giuridico, viceversa, presuppone l’accertamento anche di ulteriori elementi individuati dalla giurisprudenza: prima di tutto la volontarietà nel commettere il fatto; ancora la rilevanza e la gravità del fatto; inoltre che esso abbia arrecato nocumento al datore di lavoro.
In definitiva un orientamento piuttosto consolidato della giurisprudenza ha per il momento, di fatto e in ottica di diritto vivente, limitato i danni della “Legge Fornero”, attribuendo alla parola fatto il senso di fatto giuridico e, pertanto, tornando al paradosso citato, il nostro lavoratore avrebbe avuto diritto alla reintegra e a tornare al posto di lavoro dal quale era stato illecitamente allontanato.
Il tema è purtroppo tornato alla ribalta ai tempi del Jobs Act: come ormai notorio il D. Lgs. 23/2015 ha introdotto un nuovo regime relativo ai licenziamenti illegittimi riservato agli assunti dopo il 7 marzo 2015 e, in particolare, ha previsto che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria (…)”.
Ebbene, in questo caso ogni commento “tecnico” appare superfluo: l’intenzione del legislatore, consapevole dell’orientamento che la giurisprudenza stava assumendo, è stata quella di cancellare e disinnescare ogni ambizione di ottenere la reintegra in casi di licenziamenti illegittimi. Infatti, non solo il legislatore chiarisce che si fa qui riferimento alla mera accezione di fatto materiale, ma solleva il giudice dall’obbligo di indagare in ordine alla gravità del fatto contestato che è all’origine del provvedimento disciplinare.
UNISIN ancor di più quindi conferma la sua condanna ad una disciplina di questo tenore e, sottolineando ancora una volta che il perimetro è quello di un licenziamento accertato quale illegittimo da un giudice, insiste nell’invocare il diritto di tornare a lavoro per la persona illegittimamente allontanata.
Una ulteriore sentenza della Corte di Cassazione apre però uno scenario del tutto inaspettato: ci si riferisce appunto alla sentenza dell’8 maggio 2019 n. 12174.
Ebbene in sentenza la suprema Corte asserisce che l’interpretazione da riconoscere al c.d. fatto materiale (Jobs Act) non possa che essere la medesima di fatto contestato (Statuto dei Lavoratori) e pertanto è necessario che esso abbia una rilevanza in termini disciplinari. Nello specifico il giudice dichiara che: “Ai fini della pronuncia di cui all’art. 3, comma 2, D. Lgs. n. 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (…) comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
Resta esclusa, evidentemente, ogni valutazione circa la proporzionalità del licenziamento come espressamente indicato dalla norma.
Si tratta di una prima sentenza ed è dunque necessario attendere il consolidamento del principio, come pure sperare che tali orientamenti non mutino nel tempo, ma è un buon inizio.
È comunque chiara la volontà dei giudici di limitare la portata delle due riforme (Legge Fornero e Jobs Act), in una probabile logica di contenere i gravi danni che l’applicazione letterale delle due norme comporterebbe.
Si ricorda, infine, che la piattaforma sindacale di rinnovo del nostro contratto nazionale prevede, sul tema, un apposito capitolo finalizzato sostanzialmente a “sterilizzare” tali riforme all’interno del nostro Settore.